Quante volte abbiamo sentito dire: “Il Pride è solo una carnevalata". Oppure: "È una scusa per vestirsi in modo eccentrico e fare baldoria" o ancora: "Se siamo tutti uguali, che bisogno c’è di fare una marcia?". Ogni anno, a giugno, tornano le stesse obiezioni sul Pride, il corteo in cui la comunità LGBTQ+ e i suoi alleati si riuniscono per rivendicare diritti, rispetto e riconoscimento sociale. Di fronte alla parata colorata molte persone si domandano: ma il Pride nel 2021 ha ancora senso di esistere? La risposta è sì: il Pride è un evento necessario, per tutti. La manifestazione serve a ricordare una lunga storia di battaglie ma anche a ispirare tutte le persone, specialmente le più giovani, che faticano a sentirsi accettate. Si scende in piazza per sé e per gli altri: non in tutto il mondo il Pride è permesso, anzi, in 71 Paesi l'omosessualità è ancora un reato punibile con il carcere o con la pena di morte.
Il Pride serve a sentirsi accettati
Il Pride ha il carattere di una grande festa colorata e chiassosa, ma nasce come una rivendicazione: da cui il nome, "Orgoglio". Il corteo è il momento in cui le persone omosessuali, bisessuali, lesbiche, trans, asessuali e intersessuali possono dire al mondo: "Io esisto e non c’è nulla di sbagliato nell’essere come sono". Sembra banale, ma non lo è affatto: per molte persone rappresenta uno spazio sicuro in cui gridare al mondo la propria identità, senza timore di ripercussioni o attacchi. Immaginate cosa significhi per adolescenti o ragazzi che ancora faticano ad accettarsi o hanno paura a fare coming out: è l'occasione per sentirsi parte di una comunità, accettati e rispettati.
Il ddl Zan e tutte le altre battaglie in corso
Il Pride ha una lunga storia: la prima "marcia dell'orgoglio" si è tenuta nel 1970, per ricordare i moti di Stonewall, una rivolta contro la polizia che ha segnato uno spartiacque nella storia dei diritti civili anche grazie a pioniere come Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera. Il Pride ricorda una lunga storia di battaglie, di sacrifici, di repressioni e di abusi. Ma serve ancora a fare luce su quanto ancora c’è da fare. E c’è molto da fare, visto che il disegno di legge sull’omotransfobia – il famoso ddl Zan – ha incontrato rinvii e resistenze e ora ha aperto un conflitto diplomatico senza precedenti tra il Vaticano e lo Stato Italiano.
L'omofobia esiste ancora (anche sul luogo di lavoro)
Il Pride è ancora necessario perché le cronache ancora ci raccontano di coppie aggredite per un bacio o di adolescenti attaccati perché indossavano una borsa arcobaleno. Non solo: anche condannando i singoli episodi di violenza, siamo ben lontani dalla piena accettazione sociale. L’orientamento sessuale e l’identità di genere sono ancora motivo di discriminazione sul luogo di lavoro: per le persone trans a volte è impossibile perfino presentare il curriculum, visto che spesso i documenti non riflettono più l'identità di chi li presenta. Alcuni dati ci aiutano a fare luce sul fenomeno. Io sono io lavoro, un’associazione nata all’interno di Arcigay specificatamente per trattare temi di occupazione, sostiene che il 13% delle persone LGBTQ+ intervistate ha visto respingere la propria candidatura per via dell'orientamento sessuale, cifra che sale al 45% per le persone transgender e transessuali.
I Paesi in cui i gay rischiano la vita o il carcere
Non si scende in piazza solo per sé, ma anche per gli altri, per chi non ha voce e non ha la possibilità di manifestare. Secondo un report di Human Dignity Trust, in 71 Paesi del mondo si commette un reato ad amare qualcuno dello stesso sesso: reato che viene punito con il carcere o con la pena di morte. In particolare, in 11 Paesi le persone gay o trans rischiano la vita per qualcosa che non possono scegliere e che non arreca danno a niente e a nessuno. Non è solo una possibilità giuridica: almeno sei Paesi – Iran, Nigeria settentrionale, Arabia Saudita, Somalia e Yemen – attuano concretamente la pena di morte.
Perché il Pride ci riguarda tutti
Il Pride ci riguarda tutti: le persone eterosessuali e cisgender che appoggiano la battaglia della comunità LGBTQ+ si chiamano "ally", alleati. Essere alleati è importante perché i diritti civili ci riguardano tutti. Certo, gli alleati devono riconoscere i propri privilegi: il che non significa avere una vita agiata e priva di difficoltà, ma che tra gli ostacoli quotidiani non c'è questo tipo di discriminazione. Resta fermo il fatto che non bisogna essere neri per capire quanto sia sbagliato il razzismo, così come non bisogna nascere femmine per combattere il sessismo e la misoginia: allo stesso modo, non bisogna essere gay o bisessuali per scendere in piazza contro l’odio.