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Opinioni

Discriminati e costretti a licenziarsi: la brutalità del mondo del lavoro per una persona transgender

Il 45 per cento delle persone transessuali, in Italia, vede respingere il proprio curriculum quando si candida per una posizione lavorativa. E molti di loro, quando un lavoro ce l’hanno, vengono demansionati o sottopagati rispetto ai colleghi cisgender. Una discriminazione quotidiana di cui la politica non si fa carico, che pesa sulle spalle di tanti. Antonia Monopoli, attivista e responsabile dello sportello trans di Ala Milano ne ha discusso con Fanpage.it.
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A cura di Giulia Torlone
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Le violenze, lo sappiamo bene, non sono solo quelle più visibili ed eclatanti. Spesso sono sottili, perpetrate così lungamente che quasi diventano parte della quotidianità. Soprattutto quando a farne le spese sono le minoranze, che ogni giorno devono combattere su più fronti e barcamenarsi tra soprusi, ingiustizie, diritti negati. Le persone transessuali in Italia lo sanno bene: su di loro le discriminazioni sono all’ordine del giorno. Identità di genere non riconosciuta, talvolta poca solidarietà dal mondo lgbt di cui fanno parte, scarsa rappresentanza delle loro istanze nel mondo politico: l’universo trans è costellato da piccoli e grandi abusi quotidiani.

Carriera e transessualità: binomio impossibile in Italia

Uno dei temi su cui si dibatte poco, ma che rappresenta una grande limitazione alla libertà di autodeterminazione di una persona trans, è quello legato al mondo del lavoro. Per avere una fotografia chiara dell’enorme divario tra persone cisgender e transessuali sul tema, sono pochissimi i dati disponibili. Io sono io lavoro, un’associazione nata all’interno di Arcigay specificatamente per trattare temi di occupazione, ha raccolto delle cifre che ci aiutano a comprendere. Il 13% delle persone LGBT intervistate ha visto respingere la propria candidatura ad un posto di lavoro in ragione del proprio orientamento sessuale, valore che sale al 45% per le persone transessuali. Appare chiaro, dunque, il motivo per cui più di un quarto delle persone LGBT decide di non rivelare il proprio orientamento sessuale sul posto di lavoro. Sempre nella stessa ricerca, il 4,8% riferisce di essere stato ingiustamente licenziato a causa del proprio orientamento sessuale o identità di genere; mentre il 19,1% denuncia di aver subito un trattamento ingiusto sul luogo di lavoro. Questo studio mostra bene come una persona omosessuale abbia una forte difficoltà nel trovare o mantenere lavoro in seguito al coming out, ma il dato diventa quattro volte superiore nel caso delle persone transgender.

Antonia Monopoli: dalla discriminazione all'aiuto sul campo

Dell’argomento Fanpage.it ne ha parlato con Antonia Monopoli, attivista, scrittrice e responsabile dello sportello trans di Ala Milano Onlus. La storia di Antonia parte da Bisceglie, in Puglia, dove lei è nata col nome di Antonio. La sua è una storia di consapevolezza e lungimiranza, che l’ha portata dall’essere un bimbo timido a cui i medici raccomandavano manicomi e lobotomie, al percorso di transizione a Milano. Qui diventa attivista e aiuta le persone in strada, lei che la prostituzione l’ha conosciuta da vicino. “Lo stigma della transessualità e della prostituzione esiste ancora, è innegabile. Nel concreto, però, oggi per le transgender italiane è davvero l’ultima spiaggia per la sopravvivenza quella, perché ora cercano di attivarsi tramite i servizi del territorio. Chiedono aiuto, percepiscono il reddito di cittadinanza, cercano in tutti i modi di non scegliere la prostituzione”. Per una persona transgender, in Italia, fare carriera è difficile. Se non impossibile. Quando in un colloquio un datore di lavoro ha un candidato transessuale, è un candidato da scartare. C’è una barriera all’ingresso che è difficile oltrepassare.

Demasionati e pagati poco: il lavoro per una persona transgender

Ma la violenza sul lavoro non è solo quella macroscopica di non riuscire a trovarlo, ma anche quella di sopportare trattamenti differenti e ostracismo quotidiano. La discriminazione è molto sottile nell’ambito lavorativo: fanno in modo che una persona neanche si accorga che si tratti di una violenza: magari riducono l’orario di lavoro, cercano di demansionarti. Piccole violenze che nel tempo diventano insopportabili e che spingono una persona a licenziarsi. E non c’è differenza tra transessuali MtoF o FtoM. “Pensavo che per le donne la discriminazione fosse maggiore, anche a causa della cultura maschilista in cui viviamo, dove già le donne cisgender ne pagano le conseguenze. Con gli anni, poi, mi sono accorta che non è così. Anche i ragazzi trans, proprio perché comunicano ai datori di lavoro di esserlo, subiscono discriminazione. Ricordo un anno fa un ragazzo trans: ha fatto un corso per diventare barbiere, ma una volta che ha iniziato a lavorare il salario era bassissimo rispetto a quanto previsto, le mansioni da svolgere totalmente inadeguate al suo profilo. Anche in questo caso, l’hanno obbligato a licenziarsi". Queste storie sono quelle che non fanno statistica, perché la violenza più sottile di questi episodi è che la sofferenza è così estenuante che è la persona transessuale a licenziarsi.

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“Quando noi riceviamo una denuncia sul lavoro noi ci attiviamo con la Cgil, all’ufficio politiche sociali. Con loro abbiamo già collaborato spiegando le buone pratiche da poter adottare nelle aziende. Noi con le aziende ci poniamo da mediatori, cercando di salvaguardare il posto di lavoro. Ma l'elemento che manca in ogni caso è la sensibilizzazione sul tema". Come in ogni storia di discriminazione è violenza, è la lontananza dalla realtà ciò che rende insormontabile il cambiamento. Ed è solo colmandola che si può riuscire a fare di più. "Ciò che manca, poi, è la formazione. Io mi occupai di farla ad un gruppo di infettivologi dell’ospedale San Gerardo di Monza. Questi medici, avvicinandosi alla realtà transessuale per dei progetti condivisi, hanno poi organizzato una formazione all’interno della struttura ospedaliera. Un’infermiera che era lì ad ascoltarmi, a sua volta mi ha coinvolta in una formazione per gli operatori infermieri. Chi si avvicina al tema, poi si attiva. Si accorgono che c’è l’urgenza di fare qualcosa. Anche un ragazzo di un liceo di Bergamo, alla notizia che in una scuola di Roma avevano adottato l’Alias (un libretto universitario/scolastico, correlato ai dati anagrafici, che però permette allo studente di decidere il proprio nome), mi ha contattato in remoto per chiedere di fare un corso di formazione sul tema nel suo istituto. Nel webinar era presente la docente in diritto: lei stessa mi ha ringraziato".

La legge Zan, un buon punto di partenza anche per la tutela del lavoro

Le persone, in tema di diritti civili, sono spesso molto più avanti della politica. La riprova è la legge Zan, ostacolata a più riprese da emendamenti e ostruzionismo dell'opposizione. "La gente è pronta per i cambiamenti, non capisco perché bisogna ostacolare una legge, come la Zan, che è una presa di posizione sui diritti civili. Penso che il testo potrebbe essere utile anche per la discriminazione sul luogo di lavoro, o perlomeno un inizio, il la per adottare delle informative e delle campagne di sensibilizzazione verso l’opinione pubblica". Mentre una parte di politica sta ancora tentando di rimandare la legge Zan e ci si affanna per ostacolare politiche attente ai diritti di ognuno, le minoranze continuano a combattere contro le discriminazioni quotidiane. Nonostante uno Stato che non sempre lotta dalla loro parte.

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Trent’anni, giornalista professionista, si occupa di politica e questioni di genere tra web, carta stampata e tv. Aquilana di nascita, ha studiato Italianistica a Firenze con una tesi sul rapporto tra gli intellettuali e il potere negli anni duemila. Da tre anni è a Roma, dedicando anima e cuore al giornalismo. Naturalmente polemica e amante delle cose complicate, osserva e scrive per capirci di più, o per porsi ancora più domande. Profondamente convinta che le donne cambieranno il mondo. 
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