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Giornata contro la violenza sulle donne 2020

Violenza sulle donne: i meccanismi psicologici che scattano nella mente della vittima

Il 25 novembre si celebra la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Alla psicologa Erica Pugliese abbiamo chiesto cosa succede nella mente di una vittima di violenze da parte del partner, quali sono i segnali a cui fare attenzione e perché è così complicato chiudere una relazione tossica.
Intervista a Dott.ssa Erica Pugliese
Psicologa, psicoterapeuta, presidente dell'Associazione Millemé
A cura di Francesca Parlato
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L'inizio è sempre da favola. Ci sono l'amore, il sesso, i regali e le attenzioni. Il rapporto è estremamente coinvolgente, cattura tutte le energie possibili diventando esclusivo. Le amicizie, la famiglia, e tutto il resto passano in secondo piano. Quasi un isolamento. Poi arriva il momento dal quale non si torna più indietro. Il primo schiaffo. Lo ricordano tutte le vittime di violenza. Come ricordano il momento immediatamente successivo, quello in cui decidono di perdonare. Poi ci sono le scuse di lui e il senso di colpa di lei. E un nuovo giro sulle montagne russe, in cui si passa da zero a cento in un attimo. E ritorna la felicità, gli psicologi la chiamano luna di miele anche se non ci sono le nozze a sancirla. Passa qualche mese (nel tempo i mesi diventeranno settimane e poi soltanto giorni) e arriva di nuovo quella sensazione di camminare sulle uova. Finché non arriva un altro schiaffo, un altro pugno e lo schema può ricominciare. "Le vittime di violenza pensano sempre di star vivendo una relazione unica, che nessuno può capire e nessuno ha vissuto – ha chiarito a Fanpage.it la dottoressa Erica Pugliese, psicologa, psicoterapeuta, presidente dell'Associazione MilleméMa non è affatto così. Lo schema è sempre lo stesso, per tutte le donne che subiscono violenza dai propri partner".

Il trauma del primo schiaffo

Perché non l'hai lasciato? È la classica domanda che chiunque ascolti un racconto di violenza pone alla vittima. "Dopo il primo colpo si entra in uno stato di shock. Si tratta di un trauma a tutti gli effetti e la donna inizierà a chiedersi cosa è successo. Perché questa persona, apparentemente perfetta, si è comportata in questo modo?". Dall'altro lato ci sarà il maltrattante che farà di tutto per farsi perdonare: "Avrà un atteggiamento di disperazione. Si scuserà, farà grandi promesse, sembrerà anche lui scioccato dal suo stesso gesto. E intanto nella vittima inizieranno a farsi strada i primi dubbi circa la sua responsabilità. Si chiederà se in fondo non sia stata lei a provocare quella reazione". Non a caso il periodo immediatamente dopo le botte viene definito ‘luna di miele': "Lo schema è sempre identico e circolare: tensione, violenza e luna di miele. All'inizio il periodo tra la luna di miele e la tensione è abbastanza lungo, poi con il passare del tempo si accorcia sempre di più e la violenza diventa sempre più frequente"

Se le vittime non si sentono vittime

Uno spirito da crocerossina, la sindrome dell'io ti salverò, abita nella quasi totalità delle vittime di violenza. "Tendono a considerare il loro legame come irrinunciabile e in qualche modo vogliono ‘aggiustare' il loro partner. Si incastrano sperando di poterlo migliorare. Diventa una missione. E non si sentono vittime, non si riconoscono in questo ruolo, non riconoscono di stare subendo una violenza". Tutte le energie delle donne che subiscono violenza sono risucchiate dal maltrattante che riesce a mutare il suo ruolo continuamente, passando da principe azzurro, pieno di attenzioni e affetto, a picchiatore. "Il maltrattante è anche un manipolatore, in grado di responsabilizzare la vittima del suo gesto. Le fa credere che se l'ha picchiata è stata colpa sua, perché l'ha provocato".

Le donne forti

Siamo portati a credere che le vittime di violenza siano donne di carattere debole, facilmente manipolabili. Ma non è sempre così. "Il maltrattante, il violento, tende a essere attratto da donne con caratteristiche di grande forza e potenza – spiega la psicologa Pugliese – L'obiettivo è controllarle. Per questo non si avvicinano a donne di indole più buona. E queste donne, proprio in virtù della loro forza, pensano di poter cambiare il partner, di potersene prendere cura. Diventa un obiettivo da raggiungere. Se riesco a cambiarlo vuol dire che valgo qualcosa, si dicono"La violenza sulle donne è trasversale: non ha classe sociale. Spesso anche le donne più emancipate si ritrovano imprigionate in rapporti di questo genere. "A volte sono donne estremamente funzionali sul lavoro, occupano delle posizioni dirigenziali dove sono arrivate perché credono in loro stesse. Ma è sull'aspetto relazionale che sentono di non valere, che il loro pensiero non ha un peso. In alcuni casi le motivazioni risiedono in un modello familiare anaffettivo o all'interno del quale sono state fortemente svalutate. Oppure al contrario sono figlie di un genitore che ama troppo. E per questo tendono a riprodurre uno schema simile nella loro relazione, all'interno della quale si aspettano che il partner le amerà in maniera totale". In molti casi nelle storie di queste donne ritroviamo degli abusi familiari: "L'abuso può essere violento o sessuale, ma a volte consiste anche in una deprivazione emotiva. Un genitore anaffettivo nel lungo periodo genera una vera e propria condizione di trauma nella persona che subisce questo atteggiamento. E questo porta le vittime a credere poco in loro stesse, anche se non in maniera esplicita".

Perché è difficile interrompere una relazione violenta

Chiudere una relazione tossica e violenta è complicato. Il primo motivo, l'abbiamo detto prima, sta nel fatto che la maggior parte delle donne non si sente vittima. "Non crede di essere in una situazione di pericolo. E questo non consente loro di fuggire, di fare il primo passo verso la via d'uscita". E in molte di loro nonostante le botte, la paura stenta a comparire. "La vittima di violenza in proporzione ha meno paura per sé di quanta ne ha per il rischio di perdere il suo partner. La paura di prendere le botte subisce un processo di abituazione. Si tende ad accettare e normalizzare la violenza. Il livello delle percosse si alza piano piano. La paura maggiore resta quella di separarsi dal partner. In questo caso vediamo come le donne siano molto più concentrate sulla relazione che su sé stesse. Anzi il contenuto del sé è quasi del tutto perso". Un rapporto di questo tipo si definisce anche di co-dipendenza: vittima e carnefice entrano in una spirale per la quale non possono fare a meno l'uno dell'altro. "Abbiamo visto che se le vittime denunciano subito dopo aver subito una violenza, sono in grado di riportarti con estrema lucidità tutto quello che è accaduto, di spiegare cosa è successo e quanto c'è di sbagliato in quello che il loro carnefice ha fatto. Ma nel giro di qualche ora la vittima perde la percezione sensoriale di quello che ha provato e prende il sopravvento la patologia. La paura di perdere quella persona ovatta la paura della violenza". Neanche i figli riescono a costituire la giusta motivazione per chiudere una relazione tossica: "Le madri raccontano che i bambini non assistono alle violenze. Ma oggi dai dati a disposizione sappiamo che esistono due tipi di violenza per quanto riguarda i figli, diretta e indiretta. Nel primo caso i bambini assistono agli episodi di percosse, nel secondo invece anche se i bambini non vedono direttamente schiaffi e pugni, percepiscono quello che accade. Tornano da scuola e trovano la madre in lacrime ricoperta di lividi, oppure riescono a sentire quello che succede anche se sono in altre stanze. Si chiama violenza assistita". 

Rompere il silenzio

È difficile capire quale è il momento esatto in cui si trova la forza e il coraggio di denunciare e di porre fine alla relazione. "Solitamente succede dopo un atto di violenza particolarmente grave. Le vittime a un certo punto si aprono. Rompono il silenzio. Rompere il silenzio è anche un motto che utilizziamo con l'Associazione Millemé. È come se il problema si materializzasse parlandone. Si apre il vaso di Pandora con le amiche o con la famiglia. E in questo caso la rete affettiva diventa il sostegno necessario per poter iniziare anche il percorso giudiziario". Nella Giornata Internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne però è bene ricordare che la violenza di genere è ancora un fenomeno sommerso. Il 28,1% delle donne non parla con nessuno delle violenze e a denunciare è ancora soltanto il 12,2% (nel caso delle violenze del partner) e ancora una grande percentuale non conosce neanche l'esistenza dei Centri antiviolenza (soltanto il 3,7% vi ricorre). "Oggi le cose stanno un po' cambiando. Le donne riescono a riconoscere le relazioni tossiche. Stiamo vedendo un certo cambio di passo soprattutto tra le nuove generazioni". Ma è importante che ci sia un cambio di rotta culturale anche riguardo il fenomeno di vittimizzazione secondaria o victim blaming. L'abbiamo visto col caso di Genovese o della maestra di Torino: quando si tenta di dare qualche responsabilità alla vittima, non solo si fa un torto a lei, ma si fa anche un torto a tutte le donne che subiscono violenze perché penseranno che nonostante la denuncia potrebbero non essere credute. "La vittimizzazione secondaria comporta una seconda aggressione per la vittima da parte delle istituzioni ma anche dalla società, dai parenti o dagli amici. È un modo per infierire su chi ha già sofferto". 

Una nuova vita

I traumi si portano dietro per tutta la vita, ma non significa che da una storia di violenza non se ne potrà uscire. "Le possibilità di cura e di ricostruirsi una vita sono altissime. Il percorso inizia con l'accettazione di essere state delle vittime. Poi bisogna andare a curare quello che le ha portate a incastrarsi in questo tipo di relazione. La terapia consigliata è doppia: sia individuale che di gruppo. Il gruppo è fondamentale per il riconoscimento tra le vittime. Vedendo quello che è successo alle altre possono iniziare a vedere quello che è successo loro". Anche una nuova vita sentimentale è possibile: "Attenzione però, perché l'obiettivo della terapia è essere in grado di avere una vita affettiva sana, con un contesto di amici e familiari supportivo. Durante l'isolamento si perdono tanti contatti, per questo è importante ricostruire una rete affettiva. Trovare un partner non è sempre facile e non è l'obiettivo della terapia. Ma è assolutamente possibile".

Le informazioni fornite su www.fanpage.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
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