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Sempre più donne sono tagliate fuori dal mondo del lavoro quando diventano madri

Sono 30,672 le neomamme costrette alle dimissioni perché risulta impossibile conciliare lavoro e famiglia, tre volte di più rispetto a dieci anni fa. Part-time negati, sussidi che agevolano l’uscita dal mondo produttivo dimostrano che essere una lavoratrice in Italia è un privilegio.
A cura di Giulia Torlone
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"Hai figli o hai intenzione di averne?”. Quante volte, nei nostri colloqui di lavoro ci è stata fatta questa domanda? E quante volte abbiamo dovuto fingere di non avere nessun istinto materno, nessunissima intenzione di metter su famiglia? Quante di noi, che invece un figlio lo avevano già, hanno fatto finta che non esistesse? Perché nel mondo del lavoro, in Italia, figlio = problema. Poco importano le campagne contro la denatalità, i bonus mamma e quelli bebè, una mamma lavoratrice non ha vita facile nel nostro Paese. A confermarci ciò che, purtroppo, già sapevamo, sono i dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro.

Nonostante le sostanziali differenze nell’accesso al lavoro e nella rete di asili nido che caratterizzano nord e sud Italia, il problema riguarda l’intera penisola, senza distinzioni. Sono infatti 30.672 le donne costrette alle dimissioni per l’impossibilità di conciliare orario di lavoro e famiglia. Il numero è triplicato negli ultimi sette anni. È una cifra mostruosa che sembra non destare, però, alcun effetto su chi potrebbe invertire questa tendenza, la classe politica tutta. Secondo quanto ci mostra l’Ispettorato, il 77 per cento del totale delle donne che hanno rassegnato le dimissioni dal proprio posto di lavoro sono neomamme. Questo succede a chi non può contare sul supporto dei nonni, che diventano babysitter a tempo pieno, a chi non può permettersi asili nido perché quelli pubblici hanno pochissimi posti rispetto alle richieste e quelli privati costano quasi quanto uno stipendio. Per non parlare poi dell’enorme differenza tra le neomamme e i neopapà. Secondo quanto si apprende da uno studio presentato da Bankitalia Gender gaps, nel totale di tempo settimanale dedicato alla famiglia, l’impegno dei padri è di 8,13 ore, quello delle madri? 29,68. Più di tre volte, per una differenza di 21,55 ore a settimana.

Naspi: un sussidio per le neomamme o una resa?

C’è di più, però. E questo di più si chiama Naspi: il sostegno contro la disoccupazione indennizzata. È un principio riconosciuto dall’ordinamento giuridico che può essere esercitato dalla lavoratrice durante il periodo di maternità fino al compimento del primo anno di vita del figlio. Praticamente una donna, quando si accorge che il proprio orario di lavoro non è più compatibile con la sua nuova situazione di vita (gravidanza, nascita del bimbo e successivo allattamento) può dare le dimissioni. Fino al primo anno di vita del figlio percepirà il proprio stipendio, a patto che si impegni attivamente nella ricerca di una nuova occupazione. All’apparenza potrebbe sembrare un’agevolazione, ma a guardar bene non è come il voler mettere la polvere sotto al tappeto? Diciamolo schiettamente: quando stai per diventare madre, la legge ti aiuta a lasciare il tuo posto di lavoro. Così, quello che dovrebbe essere un sostegno per le madri che lavorano, diventa uno scivolo autorizzato (se non privilegiato) verso l’inoccupazione. Della serie: se il sistema non riesce a garantire la piena dignità di mamma e di donna che lavora a ogni cittadina, tanto vale agevolare l’uscita dal mondo del lavoro. Perché lo sappiamo bene, se è già difficile accedere al lavoro da donna single, figuriamoci cosa vuol dire lasciare il proprio posto per far nascere un figlio e poi mettersi alla ricerca di un’occupazione dopo il primo anno di vita del proprio bambino. Sembra assurdo, eppure è la realtà.

Quando è l’economia a risentirne

Una realtà che trova terreno fertile in un’ Italia dove lavora una mamma su due, dove nel 2018 abbiamo toccato il record di denatalità: 120 mila nascite in meno rispetto a dieci anni fa. A poco sono servite le campagne per la fertilità o i bonus bebè. Mettere le donne davanti alla scelta tra famiglia e lavoro non soltanto è disumano, ma è controproducente. A risentirne per primo sarebbe il Pil del nostro Paese, che scenderebbe in maniera vertiginosa mancando l’apporto femminile nel sistema economico italiano o un ricambio generazionale dettato dalle nuove nascite. In Paesi come la Finlandia o la Svezia, dove il welfare funziona e l’occupazione femminile è ai primi posti in Europa, la chiave di volta sono state proprio le politiche attive di sostegno alle nascite. Assegni, congedo parentale, asili nido nelle strutture di lavoro hanno fatto in modo che l’economia e il prodotto interno lordo siano in crescita costante. Un’ennesima riprova che, mai come in questi casi, maggiori diritti viaggiano di pari passo con un’economia più florida.

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Trent’anni, giornalista professionista, si occupa di politica e questioni di genere tra web, carta stampata e tv. Aquilana di nascita, ha studiato Italianistica a Firenze con una tesi sul rapporto tra gli intellettuali e il potere negli anni duemila. Da tre anni è a Roma, dedicando anima e cuore al giornalismo. Naturalmente polemica e amante delle cose complicate, osserva e scrive per capirci di più, o per porsi ancora più domande. Profondamente convinta che le donne cambieranno il mondo. 
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