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Opinioni

Recuperare un uomo violento può salvare più donne: l’importanza dei centri per partner maltrattanti

Ogni anno sono più di 500 gli uomini che si rivolgono ai Cam: i centri per l’ascolto degli uomini maltrattanti. L’approccio è quello di una terapia di gruppo, come in un gioco di specchi, in cui attraverso l’altro si riconosce la propria violenza e la si racconta trovando le giuste parole e le soluzioni per uscirne. Perché per ogni uomo autore di violenza recuperato, ci sono decine di donne che saranno salvate.
A cura di Giulia Torlone
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Quando si decide di raccontare alcune storie, bisogna sempre scegliere da che parte stare. Quando si scrive, come in questo caso, di violenze e abusi, è più che mai necessario ribadire che la priorità nella narrazione è solo una: l’esperienza della vittima. È ancora più urgente ribadirlo oggi, dove nell'ultimo fine settimana si sono consumati tre femminicidi. Nelle storie di violenza di genere non ci sono personaggi che si mescolano: esistono in maniera netta la vittima e il carnefice. La donna è la parte della storia che si ha necessità di tutelare, l’uomo abusante è colui che va consegnato alla giustizia e che non ha bisogno, né diritto, di scusanti. Quello di cui però ha diritto, oltre alla pena da scontare, è la possibilità di recupero. Proprio per questo esistono dei centri specifici per l’ascolto di uomini maltrattanti, CAM, che fanno un lavoro straordinario che potrebbe essere descritto da quella famosa immagine del sasso gettato in uno stagno. Perché recuperare anche un solo uomo, vuol dire salvare decine di donne.

Recuperare un uomo violento è un tema sociale

L’ho incontrato la prima volta quando aveva tredici anni. Sua madre voleva uscire da un matrimonio fatto di abusi e fu accolta con lui in una casa rifugio. Dopo cinque anni, oggi, sto accompagnando questo ragazzo in un percorso di uscita dalla violenza, ma stavolta la violenza è la sua”. È un racconto che lascia attoniti quello di Nicoletta Malesa, presidente del Cam Sardegna, a Fanpage.it. Eppure lascia intendere chiaramente il perché tante professioniste abbiano deciso di capire il problema, e affrontarlo, andando alla radice. “Che destino avrebbe questo ragazzo, a soli 18 anni, se non avesse la possibilità di usufruire di un servizio strutturato con un percorso dedicato? Quale futuro potrebbero avere le ragazze che incontrerà?” In queste due domande c’è tutto il lavoro che i centri di ascolto per gli uomini maltrattanti compiono ogni giorno. È un tema di ricaduta sociale, di sicurezza. Nicoletta Malesa, come molte altre professioniste, ha lavorato per anni nei centri antiviolenza dedicati alle donne. È proprio questo pregresso che ha portato alla consapevolezza di dover allargare il raggio d’azione.

L'onore di uscire dalla violenza, fino a oggi, è sempre stato della donna

Lavorare solamente sulle donne è una criticità. Sembra questo il punto centrale della questione. Perché sono loro, le vittime, ad avere l’intero onore di uscire dalla spirale della violenza. Spetta a loro gestire il carico emotivo, legale, la ricostruzione di un nucleo familiare. “Gli uomini pensano che le donne usino la denuncia come arma di vendetta, ma ovviamente non è così. Per questo si incattiviscono, non riescono a capirne il reale motivo. Quindi inaspriscono il loro atteggiamento abusante” continua Nicoletta Malesa. Questo sentimento di rancore, non essendo in grado di riconoscere la violenza perpetrata, scatena in loro gli atteggiamenti persecutori che la cronaca ci racconta spesso. Dopo anni di esperienza all’ascolto di questi uomini, si trovano delle caratteristiche che li accomunano: una di queste è la serialità. Un uomo violento con una donna sarà violento con tutte le donne. È un atteggiamento che non si modifica da sé, a meno che non subentri una presa di coscienza, un cambio di paradigma che interrompa questa spirale di abusi.

I centri di ascolto per uomini maltrattanti

Per spiegare i meccanismi di ingresso di uomini maltrattanti in un centro, è bene partire dai numeri. Dal 2009, ogni anno, i centri Cam trattano 500 tra mariti, figli o ex partner. Nel biennio 2014-2016 il 50 per cento degli ingressi è composto da uomini che hanno scelto di loro spontanea volontà di recarsi lì, consapevoli che qualcosa in loro non andasse. Il 40 per cento invece è fatto da quelle mogli, madri o figlie che hanno chiesto aiuto. Perché, ed è importante sottolinearlo, tantissime donne vittime di violenza tentano di chiedere aiuto non solo per se stesse, ma anche per l’autore di quelle sopraffazioni. Non si tratta di rimettere insieme i cocci di una famiglia ormai in frantumi, ma vengono mosse dall’intenzione di mostrare agli occhi dell’ex partner cosa hanno fatto. Quel 10 per cento rimanente è formato da quei professionisti (avvocati, assistenti sociali) che si rivolgono ai Cam per far intraprendere un percorso psicologico ai clienti o ai propri pazienti. All’interno di queste strutture, come prima tappa, c’è un colloquio individuale in cui i professionisti cercano di capire i meccanismi di difesa che l’uomo mette in atto e la reale motivazione che li ha spinti lì. “Alcuni di loro arrivano qui con l’intenzione di tornare con l’ex partner. Questo non è assolutamente un motivo valido per intraprendere alcun percorso” racconta Nicoletta Malesa. Quello che si cerca di spiegare è che al di là del reato, si è lesa la dignità di una donna, di una persona. Dopo questo colloquio, se l’uomo è ritenuto idoneo, viene inserito in un percorso di gruppo. L’idoneità verte sia sulla consapevolezza che si ha, sia se si faccia abuso di sostanze stupefacenti o alcol. In quel caso, i centri di ascolto non sono il posto adatto, ma si ha necessità di affiancare loro uno specialista che curi delle dipendenze specifiche.

Un gioco di specchi in cui riconoscere il proprio volto violento

Il lavoro di rinascita accade in gruppo. È nel confronto con gli altri che questi uomini si riconoscono, come in un gioco di specchi. E questi insiemi non sono fatti a caso, devono rispecchiare una certa eterogeneità. Lo scopo, ad esempio, è mostrare a un ragazzo cosa può fare un uomo adulto, fargli vedere in cosa possa consistere il suo futuro. È una costruzione studiata per dimostrare che la violenza sulle donne non è un problema di età, etnia, ceto sociale: deriva da un approccio culturale, dall’assoluta estraneità verso il femminile. Un esempio su tutti, che mi ha particolarmente colpito durante il racconto di questi uomini: loro non sanno cosa sia la paura. Parliamo soprattutto di quel timore ancestrale che noi donne abbiamo cucito addosso come un marchio di fabbrica. Da qui, la più classica delle domande: “Non esco sola, di notte, e tu invece?” E questi uomini, che invece si raccontano pronti ad andar fuori a qualunque ora del buio, temendo al massimo che gli venga rubato il portafogli, rimangono basiti davanti al racconto delle professioniste del centro. Quello del terrore con cui facciamo i conti sin dall’infanzia, che ci porta a non essere libere mai e a doverci difendere da qualunque uomo incontrato su una strada di notte. In loro è totale la mancanza di empatia, quella capacità di vestire i panni di una donna. Il loro è un mondo popolato da uomini, dove le donne hanno solo il ruolo di partner o madri, non ne conosco la natura o il loro ruolo nel mondo come individue. “Spesso faccio loro questa domanda: nella storia dell’umanità chi ha sempre deciso per le donne? Riflettono per un po’, poi ammettono che sono sempre stati gli uomini, ma prima non se ne sono mai resi conto” continua Malesa. Rendere consapevoli dell’impianto culturale in cui sono immersi e della vera portata della violenza che hanno commesso è il punto di approdo del percorso. Proteggere le donne attraverso gli uomini, questi uomini che sono liberi, perché hanno già affrontato la giustizia o perché su di loro con pende nessuna condanna penale.

Recuperare un padre

Quello che sembra un altro mantra nei centri d’ascolto per gli uomini maltrattanti è il diritto di un figlio ad avere un padre non violento. Dietro gli abusi domestici, ci sono spesso dei figli che hanno assistito alle botte sulla propria madre, o ne sono stati vittime loro stessi. E lasciare la possibilità, sempre e solo nel caso lo volesse, a un figlio di poter ricucire un rapporto con il proprio genitore è una strada che non deve essere preclusa. Anche a questo serve il percorso di gruppo. Gli incontri sono a cadenza settimanale, e hanno un approccio psico-educativo. I risultati sono sorprendenti: la violenza fisica si interrompe immediatamente, lavorando quindi poi su un approccio che cerca di minare la sopraffazione e un modello sbagliato, ormai interiorizzato, di una relazione di coppia. E quando il ciclo di incontri, che dura un anno, termina quasi nessuno decide di terminare. Per questo esistono i cosiddetti follow-up che spesso hanno un taglio che riguarda la genitorialità. È un guscio di protezione, dove un uomo in rinascita si sente protetto e salvaguardato, per quello non lo abbandona.

Affrontare un femminicida in carcere

Quando si lavora in carcere, si ha a che fare spesso con degli assassini. Perché dietro le sbarre ci sono uomini che hanno ucciso le loro ex compagne e che hanno davanti a sé 30 anni di carcere. Nella prigione di Sassari, c’è un reo confesso che non si è ancora pentito di essersi macchiato di femminicidio. È stato condannato un anno fa ed è ancora nella fase in cui non ha coscienza della mostruosità della sua azione. Ha lasciato orfano un figlio e di lui ancora non chiede né parla, accecato tutt'ora e nonostante tutto dalla rabbia e dal senso di vendetta nei confronti della moglie. L’unica cosa di cui è convinto è che mai avrebbe pensato di essere capace di compiere un simile gesto. Anche in questo caso, come in molte carceri italiane, ci sono gli esperti che tentano anche in situazioni così disperate di recuperare almeno una vita. Perché i centri di ascolto non sono dalla parte degli uomini né si sostituiscono alla giustizia, ma lavorano perché, come il famoso sasso gettato in uno stagno di cui parlavamo all’inizio, i cerchi virtuosi che ne possono scaturire invadano anche l’habitat circostante. Anche in questo caso, nonostante la prigione, è possibile organizzare gruppi di incontro. Le statistiche dicono che oltre il 70 per cento decide di continuare anche una volta scontata la propria pena.

Nessun tentativo di assolvere il colpevole, ma di salvare le donne

Questa realtà virtuosa è parte di un processo di liberazione dalla violenza sulle donne. Il lavoro di questi centri è toccare la carne viva, il nervo scoperto, il colpevole. È tendere una mano al violento. Non per assolverlo, né per derubricare la sua colpa, ma è l’esatto contrario: far prendere coscienza del problema a chi non ne ha alcuna, è fermare in tempo un atto irrimediabile, è insegnare la giusta convivenza in un rapporto sociale tra due individui di sesso diverso. La donna ha il diritto alla propria sicurezza, fuori e dentro le mura di casa. Per farlo, ha bisogno che gli uomini prendano coscienza di sé, per questo non smetteremo di parlarne.

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Trent’anni, giornalista professionista, si occupa di politica e questioni di genere tra web, carta stampata e tv. Aquilana di nascita, ha studiato Italianistica a Firenze con una tesi sul rapporto tra gli intellettuali e il potere negli anni duemila. Da tre anni è a Roma, dedicando anima e cuore al giornalismo. Naturalmente polemica e amante delle cose complicate, osserva e scrive per capirci di più, o per porsi ancora più domande. Profondamente convinta che le donne cambieranno il mondo. 
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