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Opinioni
Giornata contro la violenza sulle donne 2020

Non voglio avere uno spray al peperoncino in borsa, lasciateci libere di camminare come voi uomini

La Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne di quest’anno, tra Covid e quarantena, registra numeri da capogiro: l’Onu stima che saranno 15 milioni le donne che entro l’anno saranno vittime di abusi. E mentre la cronaca ci racconta una verità che conosciamo, ognuna di noi fa i conti con quelle piccole violenze quotidiane, talmente comuni da averle fatte passare per normalità. Come chiudere la porta di casa a doppia mandata, come abbassare la voce in pubblico o essere una quota rosa.
A cura di Giulia Torlone
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Ogni volta che arriva una ricorrenza, una data rossa sul calendario, i sentimenti che affiorano sono contrastanti. Soprattutto oggi, quando non si tratta di Pasqua, Natale o Capodanno, ma di una giornata che è dedicata alla prevenzione e alla lotta contro la violenza sulle donne. C’è sempre un rumore di fondo, un chiacchiericcio fatto di immagini profilo Facebook con il bollino “stop violence against woman” della durata di 24 ore o di post che raccontano la storiella della donna da toccare con un fiore e mai con un pugno. La sensazione, ogni volta, è che si confini il tutto come un santino da tirare fuori una volta l’anno. Come si tira fuori l’intimo rosso il 31 dicembre. Ma la professione che svolgo, di cui riconosco l’importanza fondamentale nonostante le crociate quotidiane contro i “giornalisti-terroristi”, è un osservatorio che resta privilegiato. E lo è soprattutto oggi, quando gli occhi sono puntati su una realtà ben definita: una realtà che riguarda il 51 per cento della popolazione italiana, più della metà di chi ha in tasca un passaporto del Bel Paese.

Una giornata particolare in un anno particolare

Questo è un anno diverso, sofferto, ce lo racconta la cronaca e ce lo mostrano i numeri. Il Covid, la reclusione, hanno contribuito a esacerbare delle situazioni di violenza familiare che da episodi isolati sono diventati routine. Perché se il lockdown di marzo ha salvato la vita di migliaia di cittadini, ha distrutto l’esistenza di centinaia di donne. Mostrare quest’evidenza non ha nulla a che vedere con il sollevare una polemica verso le decisioni del Governo, ma è un fatto che ha la sua dignità nell’essere raccontato. Le donne vittime di violenza, obbligate dalla quarantena alla convivenza forzata con il proprio partner abusante, hanno avuto meno possibilità di sporgere denuncia, ma hanno iniziato a rivolgersi al numero 1522, la linea dedicata. Magari di notte, o chiuse in bagno con la scusa di una doccia. E il dato di queste telefonate è aumentato del 73 per cento negli ultimi mesi, di cui grossa parte è composto da primi contatti, quelli delle donne cioè che si rivolgono ai centri antiviolenza per la prima volta. Questa cifra allarmante è accompagnata a quella che ci dà l’Onu, secondo cui entro la fine dell’anno potrebbero esserci 15 milioni di casi di abuso in più in tutto il mondo. Dietro ai numeri, e suona banale ricordarlo, ci sono le storie. E ogni storia è uguale e diversa. Uguale nel suo essere frutto di schemi sociali e violenti precostituiti, diversa perché ognuna ha i tratti del proprio aguzzino scritti sul viso. E differenti sono le strade scelte per uscirne.

La spirale della violenza quotidiana

Saper incasellare cosa sia violenza e cosa no, è una delle cose più difficili richieste a una donna. Sappiamo bene che non esiste solo quella fisica di un marito belva, così come non c’è solo lo stalking e il revenge porn, che sono spesso soltanto la conclusione di una catena di atteggiamenti violenti che appaiono invisibili. Perché ogni giorno l’esistenza di una donna è costellata da così tanti piccoli abusi, che ogni cosa scivola nella normalità. Abbiamo ritenuto che fosse normale dare le dimissioni a lavoro al posto del partner perché non compatibile con i figli in dad, così come abbiamo reputato normale allungare la gonna di due centimetri per non far cadere l’occhio al collega. Ed è stato altrettanto normale rinunciare a richiedere un salario dignitoso, di non essere pagate in nero per fare le pulizie a casa d’altri, di non poter alzare la voce perché altrimenti si corre il rischio essere chiamate “isteriche” o “mestruate”. Abbiamo ritenuto normale essere interrotte continuamente durante un discorso, essere una quota rosa in un mondo a tinta azzurra. È stato normale chiudere la porta a doppia chiave prima di andare a letto, stare sedute composte ma “non accavallare le gambe davanti agli estranei se hai le calze”. Per molte di noi, però, questo meccanismo a un certo punto si è inceppato e abbiamo capito che no, non è normale affatto.

Chiamare le cose con il proprio nome vuol dire salvarsi

Il mio lavoro mi fa osservare, mi fa raccontare le storie degli altri. Il bello di essere dietro le quinte e godersi sul palco qualcuno che merita il debutto o una confermata replica. Ma prima di essere una giornalista, sono stata una ragazzina che ha pensato per tanto tempo che tutto fosse normale. C’è stato un momento, però, in cui quello che sembrava non tornare ha trovato il suo posto e io ho cambiato il mio sguardo sulle cose. Il momento di svolta, per me, ha la forma di un rossetto finto con su scritto “Diva”. Finto perché, in realtà, all’interno nasconde uno spray al peperoncino. Mi ricordo la sera in cui una persona particolarmente importante me lo regalò, anni fa. Mi disse: “Tienilo con te in borsa, almeno potrai proteggerti quando sarai da sola la notte, sulla via di casa”. In quell’esatto momento si è spiegata la sirena nella mia testa e ha iniziato a suonare. Cosa c’è di normale nel tenere in borsa uno spray al peperoncino per difendersi in un’aggressione? Da quando abbiamo iniziato a curare gli effetti e non le cause? Da quell’episodio ho iniziato a fare un percorso all’indietro e ho imparato a guardare e analizzare chi ero, chi fossi in quel momento, ma soprattutto quale sia la linea che demarca la sopraffazione dal libero arbitrio. Perché quella linea c’è. La bomba era detonata definitivamente e ho cominciato a chiamare le cose con il proprio nome. Era violenza quando, a quattordici anni, quello che credevo fosse un amico invece di riaccompagnarmi a casa ha tirato dritto e me la sono scampata giusto perché alcuni ragazzi sono saltati fuori dal buio, appena finito di rollarsi una canna. Ed è stata violenza quando il giorno dopo ero colpevole perché avrei dovuto dire subito di girare in tempo, quando il motorino non aveva imboccato la strada di casa. Era violenza quando, più grande, un uomo su Ponte alle Grazie a Firenze, con la scusa di chiedermi indicazioni stradali, mi ha infilato le mani sotto al vestito. È violenza quando qualche mese fa uno sconosciuto mi ha tampinato su Messenger a qualunque ora del giorno e della notte. Il momento in cui riesci a mettere a fuoco esiste e quando questo momento non arriva, ma sentiamo che qualcosa non va, dobbiamo parlarne. Che sia con un’amica, con un fidanzato o con una sorella, non bisogna mai banalizzare la sensazione di non sentirsi a proprio agio nella propria vita. A me ha iniziato a salvarmi un finto rossetto con la scritta Diva, ancora imballato in un cassetto, ma la testa l’ho alzata io.

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Trent’anni, giornalista professionista, si occupa di politica e questioni di genere tra web, carta stampata e tv. Aquilana di nascita, ha studiato Italianistica a Firenze con una tesi sul rapporto tra gli intellettuali e il potere negli anni duemila. Da tre anni è a Roma, dedicando anima e cuore al giornalismo. Naturalmente polemica e amante delle cose complicate, osserva e scrive per capirci di più, o per porsi ancora più domande. Profondamente convinta che le donne cambieranno il mondo. 
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