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L’obbligo del cognome paterno: la Consulta scardina un privilegio che non ha più senso di esistere

“L’attribuzione del cognome del padre è un retaggio patriarcale non più coerente con l’uguaglianza tra uomo e donna”. Questa è la motivazione con cui la Consulta si è pronunciata riguardo alla legittimità dell’articolo 262 del Codice Civile. Un passo in avanti storico per il nostro Paese, già bacchettato nel 2014 dall’Unione Europea per la discriminazione tra i coniugi. Una decisione che s’innesta nel diritto familiare, il campo in cui le donne hanno mosso i primi passi (e vinto storiche battaglie) da decenni.
A cura di Giulia Torlone
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Anche le tradizioni millenarie possono essere cambiate. È quanto ha sollevato la Consulta in merito alla costituzionalità dell’articolo 262, che riguarda l’attribuzione automatica del solo cognome paterno qualora “il riconoscimento sia stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori”. Un automatismo vero e proprio, a cui ognuno di noi è agganciato senza aver mai riflettuto sul retaggio culturale che porta con sé.

L'Italia e la concezione patriarcale della famiglia

La consulta, pronunciandosi su un caso sollevato davanti al Tribunale di Bolzano in cui una coppia chiedeva l’attribuzione del solo cognome materno, è andata oltre il singolo episodio e le motivazioni sono chiare e dirompenti. Per la Corte Costituzionale l’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli "è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell'ordinamento e con il valore costituzionale dell'uguaglianza tra uomo e donna". Per la prima volta nel nostro Paese viene riconosciuto nero su bianco un privilegio legislativo e uno squilibrio di genere. L’importanza di questo pronunciamento si innesta perfettamente in un momento florido di battaglie verso la parità di genere, che si consuma più che altro sul terreno della società civile. Proprio perché, in questo caso, a parlare è un legislatore, la decisione è emblematica.

Le battaglie delle donne iniziano tra le mura domestiche

Lo è sotto vari punti di vista: il primo è il riconoscere, qualora ce ne fosse bisogno, che l’ordinamento legislativo non è slegato dalla realtà, ma può e deve cambiare sulla base di come un corpo sociale si evolve. Ed è indubbio che il rapporto tra uomo e donna, soprattutto in ambito privato, sia lontano anni luce da quando l’articolo 262 è nato. Il punto di vista più importante, però, è la sfera in cui questa decisione è stata presa: nell’ambito del diritto familiare. Se ci guardiamo indietro, notiamo facilmente che ogni battaglia delle donne per la loro libertà si è consumata, almeno in prima battuta, nell’ambito domestico. Pensiamo al diritto al divorzio, all’aborto, alla depenalizzazione dell’adulterio femminile: l’emancipazione femminile si è giocata sempre su un tentativo di parità che iniziasse nell’ambito privato. Ovviamente non è un caso: la famiglia è stata per millenni considerata l’habitat naturale di una donna. Non poteva esimersi dal fare figli, da non ledere l’onore del capo famiglia, dal mettere in un angolo le proprie ambizioni personali in nome della stabilità del nucleo familiare.

In tema di diritti la forma è sostanza

Se dal punto di vista sostanziale le donne hanno rivendicato duramente, e ottenuto, delle leggi a tutela della propria dignità in ambito del diritto di famiglia, la Consulta oggi sottolinea l’importanza anche della forma. Il cognome della madre ha la stessa dignità di quello del padre di essere tramandato. Se nel tempo via via sono cadute le discriminazione tra i coniugi, appariva al quanto dissonante che restasse in piedi un privilegio che non ha alcuna sostanza per restare in piedi. Nulla, però è nato dal caso. La Consulta fa riferimento a una sentenza europea del 2014 che ha definito discriminatorio il sistema legislativo italiano che non permetteva neanche l’uso del doppio cognome fino a poco fa. Per l’Ue c’era “una discriminazione ingiustificata” dei genitori. Il termine “ingiustificata” è la chiave di tutto: su quale basi aprioristiche si è retto il nostro diritto di famiglia fino a oggi? Se pensavamo già che la risposta fosse “nessuno”, ora anche la legge ci dà ragione.

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Trent’anni, giornalista professionista, si occupa di politica e questioni di genere tra web, carta stampata e tv. Aquilana di nascita, ha studiato Italianistica a Firenze con una tesi sul rapporto tra gli intellettuali e il potere negli anni duemila. Da tre anni è a Roma, dedicando anima e cuore al giornalismo. Naturalmente polemica e amante delle cose complicate, osserva e scrive per capirci di più, o per porsi ancora più domande. Profondamente convinta che le donne cambieranno il mondo. 
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