La narrazione sessista di Tokyo 2020: per gli uomini si usa il cognome, per le donne i nomignoli
La parità passa anche attraverso il linguaggio e proprio da una serie di espressioni comunissime e molto in voga ancora oggi è chiaro che non è stata pienamente raggiunta. È emerso anche nel corso delle Olimpiadi appena concluse. Questa edizione dei Giochi è stata seguita con grandissima enfasi dagli italiani, anche dai meno attenti allo sport, anche da chi certe discipline non avrebbe mai pensato di guardarle con così tanta passione! E invece i nostri atleti e le nostre atlete hanno saputo coinvolgerci e farci emozionare con i loro successi e le loro storie. La narrazione di Tokyo 2020 è fatta di traguardi raggiunti dopo anni di sacrificio, è fatta di lacrime e sorrisi: uomini e donne che hanno tenuto alto l'onore del Paese e che hanno trovato il loro riscatto personale. Le Olimpiadi, quest'anno, sono state all'insegna di una maggiore inclusività (col più alto numero di sempre di atleti della comunità LGBT+) e di una maggiore parità, almeno sulla carta. Numericamente c'è stato un positivo passo avanti: su 11.283 atleti il 48% era costituito da donne contro il 45% di Rio 2016. E pensare che c'è stato un tempo in cui non erano neppure ammesse alle gare! La storia va avanti, la società si evolve e si sviluppano nuovi fronti su cui lavorare, per migliorare il mondo in cui si vive. Adesso le donne alle Olimpiadi ci sono e sono pure tante, tante quante gli uomini: ciò che bisogna cambiare, però, è il modo in cui se ne parla.
Donne e lavoro: la discriminazione nel linguaggio
Nel mondo del lavoro si tende ancora molto spesso a sminuire le donne, le loro capacità, la loro voglia di realizzarsi, come se togliesse qualcosa a qualcuno. Esiste e l'Italia ne è un esempio la radicata idea che alcuni mestieri siano solo per uomini, come se il regno femminile fosse solo la cucina, come se fosse impensabile vederle in certe posizioni, soprattutto quelle al vertice, quando ci sono di mezzo responsabilità e potere. Per questo la loro presenza in certi settori fa ancora così tanta notizia, spesso se ne parla in ottica di "una donna con le palle", come se legittimarla fosse possibile solo se paragonata a un uomo. Le difficoltà e le discriminazioni esistono anche quando si tratta di sport e spesso a cadere in errore è proprio chi ha scelto di fare della comunicazione il suo mestiere, chi lavora quotidianamente con le parole.
@Ladonnacaso per esempio è un progetto Instagram che raccoglie tutta una serie di titoli di giornali o articoli in cui forte e chiaro si evince quanto ostracismo subiscano quotidianamente le donne nelle loro imprese, quanto i loro successi vengano costantemente ridimensionati rispetto a quelli degli uomini. L’account condivide tutta una lunghissima serie di esempi, tratti da magazine, periodici e quotidiani, per sensibilizzare sulla questione e accendere il faro sul problema. Perché il problema c’è ed è evidente, lo è stato anche a Tokyo 2020.
Come si è parlato delle donne alle Olimpiadi
Le donne a Tokyo 2020 sono state grandi protagoniste. Delle 40 medaglie portate a casa dall'Italia quasi la metà sono state conquistate da loro, entrando di diritto nella storia. C'è stato il primo oro azzurro nella marcia grazie ad Antonella Palmisano, c'è stata la prima medaglia nella ginnastica specialità corpo libero con Vanessa Ferrari mentre Lucilla Boari è stata la prima italiana di sempre a conquistarne una nel tiro con l'arco. Proprio lei a Rio 2016 è stata protagonista di una vicenda umiliante e per questo la vittoria a Tokyo è un riscatto ancora maggiore. Cinque anni fa si era parlato di lei sui giornali come della ‘cicciottella' dei Giochi: un titolo a caratteri cubitali completamente concentrato sull'aspetto fisico dell'atleta, in un contesto dove era chiamata a fare tutt'altro. Questa abitudine al body shaming è dura a morire: spesso le atlete si sentono a disagio col loro corpo, perché consapevoli dell'attenzione esagerata che viene riversata su di esso, attenzione spesso più alta rispetto ai meriti (o perché no, demeriti) sportivi. Da qui la richiesta delle ginnaste tedesche di gareggiare con la tuta e non col body, atto di ribellione contro la sessualizzazione nei loro confronti.
Anche quest'anno i giornali non sono stati da meno, rivolgendosi nei confronti delle atlete in modo discriminatorio. Se bisogna parlare dei traguardi di un’atleta, infatti, ecco che il modo di riferirsi a lei è diverso da quello che si userebbe se a portare a casa la medaglia fosse un uomo. Il cattivo esempio lo ha dato in primis l’account Instagram ufficiale della Federazione Italiana di Atletica Leggera, che ha pubblicato un post poi scomparso in cui elogiava i suoi campioni evidenziando gli uomini coi cognomi (Tamberi, Jacobs e Stano) e l’unica donna, la Palmisano, col nome (Antonella). Se a vincere è un uomo è un semidio inarrivabile che merita rispetto e autorevolezza, se a vincere è una donna ecco che è come se a salire sul podio fosse l’amica di sempre o la vicina di casa. Non a caso, di Federica Pellegrini e Maria Centracchio sui giornali si è titolato con "Fede e Maria", nonostante se ne stessero descrivendo imprese a dir poco storiche. Per lo stesso motivo spesso si parla de ‘le ragazze del volley' o de ‘le ragazze della ritmica'.
Le atlete chiedono rispetto e considerazione, meritano di essere trattate con professionalità, unicamente per il loro ruolo in gara e di certo non per ciò che indossano o per il loro fisico. Perché è degradante che dopo anni di impegno, dedizione e sacrifici si vedano il proprio talento e il proprio lavoro sottilmente sminuiti solo per il proprio sesso. Forse il problema è che ancora si percepisce come ‘eccezionale' che a vincere sia una donna, che a una donna sia a capo di qualcosa, che superi un uomo in una competizione, che ottenga risultati migliori di un collega. Ci portiamo dietro un'eredità pesante in termini di sessismo e maschilismo, data la società patriarcale in cui siamo immersi, anche se sono stati tanti passi avanti in termini di parità. Il prossimo, è proprio arrivare a non dover più sottolineare il sesso di chi compie qualcosa di rilevante.