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Opinioni

Giornata della memoria: quando l’orrore nazista si consumava sul corpo delle donne a Ravensbrück

Un campo di concentramento al femminile, a ottanta chilometri a est di Berlino. Qui 120 mila donne hanno subito la ferocia del regime nazista. Non solo ebree, erano anzi per lo più oppositrici politiche, disabili, prostitute, lesbiche. Su di loro la violenza si è abbattuta con estrema durezza e lucidità: sfruttate, sterilizzate, usate come cavie dopo essere state stuprate per anni dai gerarchi. Tante hanno resistito disegnando un fiore rosa ovunque potevano.
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A cura di Giulia Torlone
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Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”. Hannah Arendt lo disse con parole semplici: l’orrore dell’olocausto, fatto di pratiche disumane e disumani obiettivi, erano pane quotidiano di tanti nostri simili. Proprio per questo è ancora più difficile affrontare quel pezzo della storia del mondo e resta, quindi, ancor più necessario continuare a parlarne, a raccontare, a tenere vivi i ricordi di quella generazione sopravvissuta alla bestia nazista. E anche per chi, invece, non vi ha trovato scampo.

Ravensbrück: la ferocia nazista contro le donne

La capitale dell’orrore nazista per le donne ha un solo nome: Ravensbrück. Letteralmente “ponte dei corvi”, è un villaggio prussiano a ottanta chilometri a nord di Berlino, dove i nazisti misero su un luogo di detenzione al femminile, un campo di concentramento dedicato alle “donne non conformi o -addirittura- inutili”. Non parliamo soltanto di ebree, Ravensbrück ospitava anche tutte coloro che il regime non ha mai ritenuto degne di essere vive: le rom, le sinti, le oppositrici politiche e, in gran numero, quelle con problemi psichici e disabilità, le lesbiche o le prostitute. Su tutte queste donne si è giocata la brutalità nazista, in un modo che resta peculiare. Il corpo delle donne è stato un terreno di violenze tali che non avevano precedenti, perché quella violenza era permessa, sdoganata, tutelata e incentivata dalla legge. Da Ravensbrück passarono 120 mila donne, tra 1l 1939 e 1945, soprattutto tedesche, italiane, francesi, polacche e russe.

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Prima prostitute, poi cavie per gli esperimenti

Il lager si presenta grigio, tetro, silenzioso. Si odono solo comandi secchi in tedesco e il latrato dei cani che insieme ai soldati ci circondano. Sulla piazza del lager notiamo una colonna di donne: sono le deportate che ci hanno precedute. Sono magre, sembrano affaticate, sono visibilmente sporche, e molte sono rapate. Hanno poco l’aspetto di donne, indossano una divisa a righe e ai piedi hanno gli zoccoli, tutte però hanno ben visibile sul vestito un numero e un triangolo di colore diverso che le contraddistingue, le qualifica”. Il racconto è di una delle sopravvissute, Mirella Stanzione, che aveva un triangolo rosso: quella dell’oppositrice politica. Le deportate venivano rasate, costrette a lavorare nella vicina Siemens con orari di dodici ore al giorno. Quando nel 1941 venne aggiunto un “edificio speciale” per gli uomini oppositore del regime, da rieducare, alcune ragazze sotto i 25 anni, considerate “asociali”, venivano costrette alla prostituzione. Dovevavano offrire prestazioni sessuali ai detenuti uomini più volenterosi o ai gerarchi nazisti e, una volta che fossero ritenute troppo provate da una simile brutalità, diventavano delle cavie per gli esperimenti scientifici. Il regime annullava le donne con ogni mezzo. Le sterilizzava forzatamente, le privava di cibo e dignità, utilizzava il loro corpo per gli istinti sessuali e poi in nome della scienza. Uccisero donne disabili nel corso delle operazioni denominate T-4 ed Eutanasia, costrinsero all’aborto quelle donne che rimasero incinte dopo aver subito uno stupro. Per arrivare poi, alla cosiddetta “Soluzione finale”: mandarle a morire nelle camere a gas o nei forni crematori. Liliana Segre una volta disse: “Nel lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa”. Se la shoah è stato un orrore sotto tutti i punti di vista, per le donne c’è quell’elemento in più che rende l’orrore ancora più abnorme: un corpo abusato che suscita disprezzo.

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La vergogna delle mestruazioni

E il disprezzo, la vergogna, passava anche dalle mestruazioni. Per tanto tempo questo discorso è rimasto fuori dalle narrazioni, finché nel 2019, sulla rivista History Today, la storica britannica Jo-Ann Owusu, ha affrontato un argomento fino ad ora percepito dalla ricerca come irrilevante. Nelle ricerche si è parlato spesso dell’assenza delle mestruazioni nelle giovani donne, causato dalle condizioni psicofisiche nei campi, ma mai invece di cosa volesse dire avere il ciclo mestruale in un luogo in cui il corpo era sempre e costantemente esposto, osservato, studiato, abusato. Jo-Ann Owusu, con la sua ricerca e nelle testimonianze da lei raccolte, fa apparire chiaro di come le condizioni igieniche inesistenti rendessero il momento del ciclo quello più disumanizzante. La vergogna nel vedersi sanguinare, lo strappare scampoli di coperte per poter tamponare il flusso. Una femminilità violata, un orrore che si aggiunge all’orrore. Come quando i gerarchi, quando scoprivano delle deportate con il ciclo mestruale, le additavano come “sporche puttane”.

Un fiore rosa nascosto

Resistere a tutto questo sembra impossibile, eppure sappiamo che tante di loro lo hanno fatto. Se noi conosciamo queste atrocità è proprio grazie ai racconti di tutte quelle che sono scampate alla shoah nazista. Anche nel caso della resistenza femminile, c’è da fare un distinguo che pesa sul genere. Persino gli alleati, al momento della liberazione, hanno trattato con freddezza le deportate di Ravensbrück. Avevano avuto rapporti sessuali con i nemici, trattate anche da chi le aveva liberate alla stregua di prostitute. Molte di loro hanno raccontato tardi le angherie subite, quando tutto iniziava a storicizzarsi. Il corpo delle donne, le violenze sessuali, rimasero un tabù per moltissimi anni. Vale la pena ricordare quel fiore rosa che compariva spesso, e segretamente, in alcuni biglietti, disegni o ricami che le deportate di Ravensbrück si ostinavano a tratteggiare. È il simbolo della bellezza che non cede alla resa. È il rosa delle donne e della libertà oltre l’orrore.

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Trent’anni, giornalista professionista, si occupa di politica e questioni di genere tra web, carta stampata e tv. Aquilana di nascita, ha studiato Italianistica a Firenze con una tesi sul rapporto tra gli intellettuali e il potere negli anni duemila. Da tre anni è a Roma, dedicando anima e cuore al giornalismo. Naturalmente polemica e amante delle cose complicate, osserva e scrive per capirci di più, o per porsi ancora più domande. Profondamente convinta che le donne cambieranno il mondo. 
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