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Opinioni

Costrette a una clausola anti maternità, stipendi dimezzati: lo sport in Italia non è per le donne

Le atlete professioniste nel nostro Paese non hanno un contratto stabile come i colleghi uomini. Spesso si tratta di mere scritture private, dove spesso le federazioni inseriscono la clausola per la quale se si resta incinte si è fuori dai giochi. Ora una legge tenta di colmare il vulnus, ma la strada da fare perché le sportive italiane godano degli stessi diritti degli uomini è ancora lunga.
A cura di Giulia Torlone
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Il mondo dello sport è senz’altro un universo al maschile. Ancora oggi, se una donna decide di intraprendere un percorso sportivo agonistico e professionale, la sua carriera viene trattata alla stregua di un passatempo. Succede negli sport di squadra e individuali dove, nonostante le giocatrici dedichino il loro tempo esclusivamente a questa realtà, non godono delle stesse certezze e delle stesse prospettive dei colleghi uomini.

Il caso Lloyd, insultata perché incinta

Ad accendere i riflettori sul mondo dello sport agonistico al femminile, in tempi recenti, è stato senz’altro il caso della pallavolista Carli Ellen Lloyd, 31 anni, americana di Fallbrook (California), palleggiatrice e capitana del Casalmaggiore. Lo scorso anno ha scoperto di essere incinta e l’ha annunciato, entusiasta, sui social. Una buona notizia? Tutt’altro, per il famigerato popolo del web. Le sue pagine Instagram e Facebook sono state subissate da insulti, tutti con lo stesso tenore: come può aspettare un bambino nel pieno della sua carriera sportiva? Come le è venuto in mente di dedicarsi alla maternità perdendo di vista la sua squadra e i suoi tifosi? La maternità diventa una questione non più personale, ma da discutere in pubblico. La faccenda è emblematica al di là del singolo episodio in sé, perché inquadra perfettamente il modo in cui, nel nostro Paese, vengono trattate le donne nello sport.

Niente contratto, ma una clausola anti maternità

Fino a oggi nessuno ha voluto parlare della discriminazione lavorativa che subiscono le sportive, perché in ballo ci sono carriere e contratti” racconta a Fanpage.it Luisa Rizzitelli, presidente di Assist, associazione nazionale atlete. Per le sportive, parlare apertamente delle condizioni lavorative a cui sono sottoposte, vuol dire costringere i propri datori di lavoro a passare da un regime estremamente agevolato di lavoro (che spesso si traduce in una vera e propria mancanza di contratto), a uno con tutte le tutele che un lavoratore merita. “Nel mondo dello sport al femminile, tutto funziona attraverso una scrittura privata: nessun contratto ufficiale, ma un accordo tra le parti. E fino a qualche anno fa, in queste scritture inserivano anche una clausola antimaternità. Una donna era costretta a mettere nero su bianco, se voleva lavorare, che non avrebbe avuto figli. E se poi magari accadeva, era automaticamente fuori perché veniva meno al patto”.

Pagate la metà e senza tutele

Una pallavolista, un’atleta, o chiunque abbia un lavoro nello sport di alto livello, in Italia, è costretto a venire a patti. Nessun contratto con tutele, nessuna pensione o ferie, figuriamoci la maternità. Per questo, come nel caso della pallavolista Lloyd dello scorso anno, se vuoi un figlio sei fuori dai giochi. Inutile dire che nel mondo del professionismo maschile vigono tutte altre regole. “Le atlete vengono considerate alla stregua di lavoratrici autonome. Ma come possono esserlo, se si dedicano per anni a una federazione, per 8 ore al giorno? Mancano le tutele elementari del mondo del lavoro” continua Luisa Rizzitelli. Un vulnus enorme, che è stato colmato solo per le campionesse azzurre del calcio. Ovviamente, questo è accaduto dopo una dura battaglia delle associazioni e solamente in conseguenza a un forte stanziamento di risorse da parte della Fifa e della Uefa per regolarizzare a tutti gli effetti una squadra che ha brillato nelle competizioni mondiali. “Già nel 2001, noi di Assist abbiamo denunciato il fatto che le ragazze della pallanuoto prendessero la metà degli uomini. E non avevano tutele legali”. Insomma, in ogni ambito sportivo, le atlete sono penalizzate.

La legge Spadafora e quel vulnus colmato a metà

La legge Spadafora sullo sport, lo scorso novembre ha tentato di colmare questo incredibile vulnus introducendo varie tipologie di lavoro subordinato all’interno dello sport. Questo però, secondo Rizzitelli, non è abbastanza. “La legge concede alle Federazioni di decidere l’inquadramento di ogni atleta e, di conseguenza, di stipulare il contratto adeguato. Ma se fino a oggi sono state le stesse federazioni a preferire di sottopagare le sportive e di non tutelarle, perché dovrebbero ora agire diversamente? Abbiamo bisogno di un soggetto terzo, di un legislatore che controlli”. Ancora oggi, l’alternativa che le donne sportive hanno a disposizione per potere praticare uno sport e avere le giuste tutele, è quello di arruolarsi nelle forze dell’ordine. Ma può, questa, essere una scelta di libertà? Lo vediamo anche alle olimpiadi: tuffatrici appartenenti alle Fiamme Gialle, schermitrici venute fuori dall’arma dei carabinieri. “I gruppi militari sono gli unici a fare un contratto alle sportive. Se l’alternativa è non avere tutele, come dire di no a questa opportunità?” conclude Rizzitelli. Il lato negativo arriva quando la carriera sportiva si esaurisce e le ex atlete sono costrette dietro a una scrivania di qualche caserma della Guardia di Finanza.

Le molestie nello sport, una piaga di cui si parla appena

L’aspetto economico e di tutela sul lavoro è uno degli aspetti di questa violenza che le atlete subiscono. Non mancano quelle fisiche e psicologiche. Antonella Bellutti, campionessa olimpica di ciclismo, ha più volte ribadito l’urgenza di agire sulle molestie nel mondo dello sport. Una piaga che attraversa ogni disciplina, figlia di un patriarcato duro a morire. Secondo Bellutti è necessario indagare sullo sport perché, per antonomasia, queste attività hanno una vera e propria delega educativa che le famiglie hanno da sempre ceduto ad allenatori e federazioni. E tanti preparatori atletici si macchiano di comportamenti scorretti, di molestie, di atteggiamenti intimidatori che le giovani atlete denunciano con difficoltà. Il perché è noto: paura per la carriera, la normalizzazione di atteggiamenti prevaricatori. Aggiungiamo, poi, che le alte sfere del mondo sportivo italiano sono al 90 per cento formate da uomini, che hanno ancora poca sensibilità di fronte al mondo femminile. Eppure questi fenomeni non sono casi isolati, sono strutturali a un modo di intendere la disciplina sportiva e la subordinazione uomo-donna. Inquadrare i problemi e i fenomeni entro i quali si muovono, è un obbligo che ogni Federazione deve assumersi. La necessità di ripensare lo sport come lavoro e l'allenamento come una disciplina senza sopraffazione. Un percorso da affrontare al più presto.

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Trent’anni, giornalista professionista, si occupa di politica e questioni di genere tra web, carta stampata e tv. Aquilana di nascita, ha studiato Italianistica a Firenze con una tesi sul rapporto tra gli intellettuali e il potere negli anni duemila. Da tre anni è a Roma, dedicando anima e cuore al giornalismo. Naturalmente polemica e amante delle cose complicate, osserva e scrive per capirci di più, o per porsi ancora più domande. Profondamente convinta che le donne cambieranno il mondo. 
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