La vita di molte donne è fatta di piccole violenze sottili che spesso non balzano agli occhi dell’opinione pubblica. Sono soprusi che riguardano la gestione della quotidianità, l’autodeterminazione, la costruzione del proprio sé. La violenza economica è una di queste. Gli studi in merito, le statistiche, sono ancora molto poche e il fenomeno è tenuto in sordina, quando invece è parte integrante della difficoltà che molte donne hanno di costruire la propria indipendenza. Un'indipendenza che non può non passare dal riconoscimento del problema e dalla presa di coscienza che il non poter gestire autonomamente le risorse economiche familiari e personali è un abuso di genere a tutti gli effetti.
Riconoscere la violenza economica
“La violenza economica si presenta all’interno delle relazioni prima ancora che nascano delle vere e proprie forme di violenza fisica” spiega Stefania Pizzonia, presidente dell’associazione LeNove. “Fa parte di tutta una serie di strategie che vengono messe in campo per creare una situazione di forte dipendenza. Non è facilmente riconoscibile, perché è fortemente legata a degli stereotipi culturali di cui la nostra società è totalmente imbevuta”. Quante volte abbiamo pensato che fosse normale consuetudine che il partner andasse a lavorare, controllasse il conto corrente, si intestasse la scelta e le decisioni dell’intera famiglia? Ma il non avere la possibilità di gestire le finanze familiari è una trappola che toglie la libertà. “All’inizio di una relazione, alcuni gesti vengono interpretati come carinerie: l’uomo che si preoccupa delle spese, la scelta degli elettrodomestici, il pagamento delle bollette. Peccato che poi, da qui, il passo verso l’esclusione della donna nelle decisioni sia davvero brevissimo”. Già, perché essere dipendenti economicamente dal proprio partner taglia completamente la possibilità di crearsi una propria dimensione autonoma.
Il mondo del lavoro taglia fuori le donne
Questa coercizione, però, agisce al di sotto della soglia di consapevolezza e una ne donna acquisisce coscienza, spesso, solo quando a questo tipo di violenza si somma quella fisica, che fa balzare agli occhi l’evidenza di una dimensione di coppia fatta di abusi. Eppure non sempre la violenza economica ha derivazioni visibili. Questa dipendenza è creata anche da un mondo del lavoro che tiene le donne al margine, che non gli consente la piena gestione della propria esistenza. Senza sostegni alla maternità, soprattutto in un periodo come questo dove il Covid sta costringendo a rivedere l’intera gestione della vita quotidiana, sono le donne a rinunciare al proprio posto di lavoro. E il rinunciare a lavorare vuol dire rinunciare al proprio stipendio dipendendo poi da quello del partner. In questo campo l'Italia è ancora molto indietro rispetto agli altri Paesi europei: già alla nascita del primo figlio, tante donne rinunciano al proprio posto di lavoro per la mancata possibilità di far coincidere le due cose. Solo lo scorso anno più di 37mila neo mamme hanno dato le dimissioni. Più del triplo dei neopapà. Un dato che lascia di stucco se pensiamo che quest'anno, a causa del Covid, questo numero sta raddoppiando. Secondo Giovanna Paladino, direttrice del Museo del Risparmio, ente che ha supportato il progetto“Libere di Vivere” della Global Thinking Foundation, “l’indipendenza economica deve essere un mantra, una priorità assoluta. Le donne che cercano lavoro in Italia sono ancora troppo poche”. I dati infatti, piazzano il nostro Paese tra i posti più bassi in Europa per occupazione femminile: solo il 50 per cento delle cittadine è occupato. Questo sta a significare, semplificando, che la metà delle donne italiane non ha la gestione della propria sfera economica, ma è totalmente dipendente dal proprio compagno. E in questo dato ci sono più fattori che si mescolano: in alcuni casi le donne fanno un passo indietro nel mondo del lavoro per poter gestire la famiglia (non avendo altro sostegno), in altri la costruzione di stereotipi duri a morire fa sì che nello sguardo di alcune famiglie la normalità è rappresentata proprio dalla donna che resta a casa, mentre il marito provvede al mantenimento del nucleo familiare. In altri casi, però, è il partner stesso a impedire l’autodeterminazione della compagna.
La fragilità delle donne che si ribellano alla violenza economica
“Le donne che vengono fuori da contesti di abuso, di cui fa parte anche quello economico, sono donne molto fragili” prosegue Stefania Pizzonia. “Quando si rivolgono ai centri antiviolenza per uscire dalla spirale di soprusi, sono molto fragili e il percorso che le aspetta è molto lungo. Spesso sono in là con gli anni, abituate ad essere estranee al mondo del lavoro. Inserirle nel processo produttivo è molto delicato e difficile”. Riconoscere la dipendenza economica come violenza è il primo passo verso l’uscita dal buio. Capire che la gestione delle proprie finanze sia dipendente alla libertà di scelta del proprio destino è la priorità. Questo vale sia per le donne che subiscono abusi fisici e psicologici, la cui autonomia finanziaria gli permetterebbe di avere più libertà nell’abbandonare un partner abusante, sia per tutte coloro che non hanno segni sulla pelle della violenza del proprio partner, ma a cui manca la libertà di autodeterminazione. Resta necessaria, però, la capacità di riconoscerla. Quando vi viene vietato l’accesso al conto corrente, quando vi viene “passata” la paghetta mensile, quando non partecipate alla costruzione del bilancio familiare o le vostre spese vengono negate, state limitando la vostra libertà. Riconoscere questa limitazione come violenza è l’unico passo, necessario, per interrompere una spirale di abusi.