“Lei aveva la biancheria intima quella sera? Si ricorda di avere cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina? Trova sexy gli uomini che indossano il jeans?” L’atteso monologo di Rula Jebreal inizia con delle immagini chiare: le domande che tante, troppe donne si sentono ripetere continuamente quando subiscono uno stupro e trovano il coraggio di non restare in silenzio. Perché “noi donne non siamo mai innocenti, non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi o troppo presto, perché siamo troppo belle o troppo brutte”. La giornalista palestinese ha due leggii davanti a sé: su quello nero ci sono le accuse, le infamie, le violenze cui una donna è in balìa quotidianamente; su quello bianco ci sono degli stralci di canzoni, che interrompono forse un po’ forzatamente il flusso di quello che Rula dice. Ma si sa, Sanremo è pur sempre Sanremo. Parte un po’ in sordina, ma man mano cresce d’intensità, e quando arriva a parlare di sé lo fa senza riuscire a trattenere le lacrime.
Mia madre ha perso il suo ultimo treno quando aveva 5 anni, si è suicidata dandosi fuoco, ma il dolore è una fiamma lenta che aveva cominciato a salite quando era solo adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato luogo della sua tortura. Fu brutalizzata e stuprata due volte, a 13 anni da un uomo, e poi da un sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare l'uomo che l’ha violentata per anni. Il suo ricordo incancellabile era con lei mentre le fiamme divoravano il suo corpo, aveva le chiavi di casa.
Già, perché l’uomo che uccide spesso ha le chiavi di casa e Rula ricorda i numeri di un massacro che non si ferma mai: sei donne uccise in Italia soltanto nell’ultima settimana. Ma è anche agli uomini che bisogna rivolgersi, e la giornalista a loro chiede di “lasciarci essere quello che siamo e che vogliamo: madre o no, casalinghe, donne in carriera, siate in nostri complici i nostri compagno, indignatevi insieme a noi quando qualcuno ci chiede lei che cosa ha fatto per meritarsi questo". Rula ha avuto la delicatezza di riportare al centro del palcoscenico il rapporto sano tra uomo e donna, quel senso di libertà femminile a cui ogni uomo ha il dovere di contribuire. E di invitare a non abbassare mai la guardia verso nessun tipo di sopruso, di non avere mai il diritto di giudicare affrettatamente senza conoscere. Lo fa mettendo nelle mani del pubblico la propria storia, una situazione che nessuno in quella platea forse potrà comprendere mai fino in fondo. E per questo le si può lasciar passare anche l'uso di frasi già sentite e risentite, qualche scivolone: quando alcune storie le vivi sulla pelle e le regali al pubblico, quel pubblico perdona. Chiude con un messaggio importante: "domani chiedetele che cosa indossava a Sanremo, non cosa indossava quella notte". Chapeau.
Diletta Leotta e il suo monologo di cui non ne sentivamo il bisogno
Un monologo che ha un’intensità del tutto differente rispetto a quello della sua collega Diletta Leotta. La giornalista sportiva, infatti, prima di dedicare parole e ricordi a sua nonna seduta in platea, ha esordito con una pantomima sulla "bellezza che aiuta a far carriera ma che può trasformarsi in prigione".
Sono bellissima, ma sapete la bellezza capita, non è un merito. Certo può essere un vantaggio, altrimenti col cavolo che sarei qui, starete pensando. Sono una conduttrice sportiva, ma sarei ipocrita se dicessi che il mio aspetto sia qualcosa di secondario. La bellezza è un peso che col tempo può farti inciampare se non la sai portare.
L'empatia è zero, l'argomentazione idem. Meglio lasciare che parli solo della sua infanzia scanzonata. Il confronto tra due monologhi non ha partita: ben studiato, commovente, intelligente, personale quello di Rula Jebral. Assolutamente evitabile e, si potrebbe azzardare, quasi inutile quello di Diletta Leotta. Non ce ne voglia la nonna.