Prova costume? No, grazie. Perché non c’è alcun esame da superare prima di andare in spiaggia
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Sono i primi quattro titoli di giornale che compaiono digitando su Google news le parole "prova costume". Alla faccia della body positivity, dell’inclusività e dell’accettazione di tutti i corpi. Dietro un'espressione comune e apparentemente innocua oggi, che siamo diventati tutti molto più sensibili e attenti alle questioni che riguardano il corpo, ci accorgiamo che si cela uno stigma sociale per il quale soltanto alcuni fisici ‘superano' l'esame. Quando si parla di prova costume si dà al corpo il valore di ornamento, di qualcosa da mostrare perché qualcun altro possa giudicarlo per dare o meno la sua approvazione, il corpo diventa un fine e non un mezzo che ci consente di fare o non fare cose.
Bikini blues
L'ansia della prova costume di solito comincia a salire subito dopo Pasqua. Fioccano le offerte per gli abbonamenti in palestra e cominciano a comparire i primi titoli che invitano a seguire diete e stili alimentari per non farsi trovare impreparati (proprio come a scuola) all'estate. E quando le temperature iniziano a salire, i jeans sono insopportabili e prima ancora del costume si vorrebbero scoprire gambe, braccia e pancia, iniziano già i primi malumori. E al momento di indossare il costume per qualcuno scatta quello che in Australia è stato definito bikini blues: la depressione provocata dal non piacersi, dal non riuscire ad accettare come il proprio corpo appare in costume.
Razionalizzare non basta
Nonostante i movimenti per la body positivity, nonostante i social network siano pieni di pagine che promuovono la costruzione di un rapporto sano con il proprio corpo, molte moltissime persone, soprattutto donne, quando arriva l'estate vanno in crisi. "Moltissime delle mie pazienti – spiega a Fanpage.it la dottoressa Anne Galles, psicologa e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, certificata in Intuitive Eating – In questo periodo fanno estremamente fatica all'idea di mettersi in costume. Razionalmente riconoscono che si tratta di un falso problema, ma questo non le aiuta a sentirsi meno a disagio, non vuol dire che non soffrano all'idea di indossare un bikini".
L'ambivalenza dei social
Prendiamo il post che Ashley Grahm ha pubblicato qualche giorno fa su Instagram. Uno slideshow di dieci fotografie (ha riscosso quasi seicentomila like) che mostrano donne di taglie diverse, corpi con smagliature, cellulite, accompagnato da una didascalia che recita "(…) Credimi quando dico che il tuo corpo è bello e so che è facile dire a te stesso la bugia che sei non abbastanza buono, abbastanza magro, abbastanza sexy, (…). Non lasciare che la tua mente ti impedisca di goderti la vita al massimo (e ricordati di dirti "ti amo" ogni giorno)!". Un messaggio ispirazionale grazie al quale molti forse riusciranno a trovare la forza di mostrarsi in costume nonostante non si sentano adeguati. Ma basta scrollare la foto successiva per ritornare al punto di partenza. Instagram è il luogo dei filtri bellezza e delle foto patinate. I social si rivelano ancora una volta un'arma a doppio taglio, un mare magnum dove subito dopo la foto di Ashley Grahm si incontrano le foto di influencer e supermodelle dai fisici magrissimi e scolpiti che immediatamente si trasformano in un metro di paragone, rischiando di azzerare (in maniera inconsapevole) il lavoro di pagine come quella di Grahm.
La prova costume e la diet culture
La cultura della dieta si nutre di momenti come questo. Prodotti dimagranti, diete d'urto, metodi alimentari che promettono di raggiungere risultati impossibili nell'arco di pochi giorni: "La prova costume è uno spauracchio – spiega Galles – Alimenta e mantiene vivo un circolo vizioso dannoso per le persone che si lanciano a fare le diete più assurde inseguendo l'obiettivo di essere ‘presentabili in spiaggia'. E poi il caldo aumenta il meccanismo psicologico del ‘sentirsi grasso'. Quando le temperature si alzano ci sentiamo più gonfi, i vestiti ci sembrano più aderenti e questo amplifica la sensazione di non corrispondere agli standard desiderati". La prova costume è proprio l'emblema della diet culture. "Si tende verso il raggiungimento degli obiettivi imposti dalla società, come un corpo magro o un fisico scolpito, anche se questi non corrispondono alla maggioranza delle donne. Ma soprattutto si ha difficoltà a concepire il corpo come il mezzo attraverso il quale possiamo fare attività come passeggiate, tuffi o immersioni".
Il giudizio di un pezzo di lycra
Nell'arco di 70 anni il bikini è passato da essere simbolo di emancipazione e del femminismo a indumento giudicante in grado di influenzare i nostri umori e le nostre scelte. "Bisognerebbe ridimensionare il valore che diamo al nostro corpo, pensarlo come uno strumento che ci consente di fare delle cose, provare gratitudine per quello che ci permette di fare, anche se non è esattamente come lo vogliamo". La prova costume ha infatti un doppio costo, sia in termini emotivi che pratici: da un lato il disagio che ci procura con noi stessi e dall'altro, chi ne subisce le conseguenze, si priva di momenti di gioia, come una giornata al mare con gli amici. "Sarebbe ipocrita dire che non dobbiamo curarci dell'apparenza. Ma non dobbiamo portare lì tutta la nostra attenzione. Con i miei pazienti, in particolare con chi ha problemi di alimentazione, lavoriamo proprio su questo: chi si concentra solo sul peso o sulla forma fisica rischia di dimenticare altri aspetti fondamentali della vita, come la famiglia, gli amici, il lavoro. Quando si dà troppa importanza alle apparenze tutti gli altri aspetti si asciugano. Per questo si deve lavorare e investire in altre fette di vita. Non siamo solo un corpo: non possiamo riporre tutto il nostro valore personale a seconda di come occupiamo lo spazio in un pezzo di lycra".