Primark: quale sarà il futuro del brand dopo la Brexit
I risultati del referendum Brexit sono arrivati questa mattina come una doccia fredda. Contrariamente a quanto gli opinion poll avevano lasciato intendere per tutta la notte, dopo un lunghissimo spoglio è arrivata la decisione del popolo della Gran Bretagna: fuori dall'Unione Europea.
Una notizia che ha gelato il mondo della moda, ampiamente schierato contro l'uscita attraverso varie iniziative, da sottoscrizione di appelli a manifestazioni pubbliche. Purtroppo i loro sforzi non sono bastati. Vivienne Westwood, tra le più attive sostenitrici del Remain, ha deciso di affidare il suo stato d'animo alla musica graffiante dei Sex Pistols, postando il titolo di un loro celebre, quanto in questo caso emblematico, brano: No Future.
E in effetti sono in tanti a interrogarsi, in queste ore, su quale possa essere il futuro della moda britannica. Londra è una delle capitali del fashion europeo, con una Settimana della Moda tra le più attese e seguite, nonché centro nevralgico di tante scuole, una su tutte la famosa Saint Martins, e di tanti brand diffusi in tutto il mondo.
È il caso della nota catena irlandese Primark, che ha la base del suo impero proprio nel Regno Unito. Si tratta di un'azienda specializzata nella vendita di abbigliamento low cost e appartiene alla Associated British Foods. Un vero e proprio fenomeno in espansione costante, arrivato da poco anche in Italia. Dal 2006 Primark ha iniziato ad aprire punti vendita in giro per l'Europa, dopo il primo negozio in Spagna: oggi ne ha quasi 300. Gli affari sono sempre andati molto bene, con vendite che si moltiplicano di anno in anno, persino in tempi di crisi economica.
Con la sua diffusione capillare nel Vecchio Continente, però, non può non interrogarsi sull'impatto della Brexit. Già nei primi mesi del 2016 si sono registrate contrazioni nei ricavi, ma i vertici dell'Associated British Foods, pur ammettendo il clima di incertezza nel mondo finanziario scatenato dal referendum, hanno sempre cercato di minimizzare. Secondo la proprietà, la gestione della catena Primark non subirebbe alcuna flessione a causa della Brexit. Per ogni zona, infatti, ha dichiarato il chief executive George Weston, ci sono catene di produzione autonome e quindi il commercio trasfrontaliero tra Regno Unito, Europa e Stati Uniti sarebbe minimo, senza gravi aumenti di costi.
La situazione, però, non è così rosea. Innanzitutto è difficile credere che una catena di tali dimensioni non necessiti di traffico di beni di produzione da un paese all'altro. E i prezzi, con l'uscita effettiva della Gran Bretagna dall'Unione, aumenterebbero sicuramente a dismisura con una forte contrazione del libero mercato, come rilevato anche dal New York Times. Inoltre a spostarsi, in aziende di tale entità, non sono solo beni, ma anche e soprattutto le risorse umane. In questo modo qualsiasi viaggio diventa più complicato, tra passaporti e controlli che ormai sembravano solo ricordi di un passato macchinoso da dimenticare. E ancora, un vero dramma per quelle figure manageriali per loro natura apolidi, che necessitano di spostarsi di sede in sede anche nel giro di pochi giorni.
Il discorso, ovviamente, non vale solo per Primark, ma per tutte quelle aziende e quelle firme dal respiro internazionale, che nella moda sono praticamente tutte. Il rischio è che la moda inglese a lungo andare possa restare isolata nelle barriere dei dazi e delle pratiche burocratiche, sottraendo linfa all'intero sistema, in termini economici e di ispirazione. Un vero controsenso per un mondo che, per sua definizione, è quanto di più cosmopolita esista.