La notizia di sabato, del ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul, ha una portata enorme, su cui vale la pena riflettere. Al di là del significato formale, cioè che faccia un passo indietro proprio la nazione che ha dato il nome all’accordo, c’è il risvolto più sostanziale: che il conservatorismo si misura prima di tutto sulla regolamentazione della vita delle donne.
Quella Turchia laica e libera che rischia di sparire
Appare chiaro da anni che la politica interna del presidente Recep Tayyip Erdoğan non sia certo votata all’uguaglianza e al laicismo, d’altronde non è mai stata sua l’intenzione di mantenere il Paese quello che fu per secoli: la culla dove l’oriente e l’occidente si mescolavano sulla base di un profondo laicismo. E il Paese dell’aria orientale, di tradizione musulmana, dove le donne godevano di una profonda libertà fatta di scelte autonome e di una religiosità non imposta. Pian piano abbiamo visto sgretolarsi uno ad uno i principi che hanno fatto grande la Turchia. Con Erdogan gli oppositori politici hanno vita difficile, le donne spariscono dal dibattito pubblico e, ora, hanno sicuramente meno tutele giuridiche. La convenzione di Istanbul è un trattato vincolante voluto dal Consiglio europeo che detta obiettivi, confini e strategia per ostacolare la violenza sulle donne in ogni sua diramazione. Quella fisica è la prima, certamente, ma chiede agli Stati membri di attuare una serie di riforme per fa sì che anche le altre forme di sopraffazione, psicologica o economica, vengano ridotti ai minimi termini. Ritirando il proprio Paese dalla ratificazione del trattato, la Turchia ha voltato le spalle alle sue cittadine. Marcella Pirrone, avvocata di D.i.Re e presidente di WAVE, Women Against Violence Europe ha così commentato:
Il ‘ritiro’ della Turchia dalla Convenzione di Istanbul conferma la preoccupazione sentita da tempo da tutte le donne impegnate contro la violenza alle donne. Il mondo delle ONG, in particolare quello dei servizi specializzati per la violenza contro le donne gestiti da donne, quali la rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.Re e quella europea WAVE, avevano lanciato assieme al Consiglio d’Europa e alla Commissione Europea un forte allarme rispetto ai movimenti politici di alcuni paesi – Turchia, paesi del gruppo Visegrad4, Bulgaria – che avevano assunto posizioni di forte contrasto e opposizione ai principi sanciti dalla Convenzione.
La voce delle attiviste turche
Un passo indietro sul contrasto alla violenza di genere, soprattutto in questo periodo dove il Covid rende ancora più complicata la vita di una donna, è un attacco senza precedenti. Le donne turche, con il loro attivismo e la partecipazione che le ha sempre contraddistinte, non smettono di lottare. Da un anno scendono in piazza, quando il ritiro del loro Paese dalla convenzione era già nell’aria, ed ora che la notizia è ufficiale di certo non si arrendono. Mor Çatı Women’s Shelter Foundation, organizzazione femminista fondata nel 1990 con la creazione di centri antiviolenza e case rifugio e da sempre al centro delle lotte per l’affermazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali delle donne in Turchia, ha redatto un appello per dare voce alla loro lotta anche fuori dai confini nazionali. Queste le loro parole:
Per anni siamo state testimoni del disprezzo per la Convenzione di Istanbul nella lotta contro la violenza contro le donne e del fallimento nell’adozione delle misure previste dalla legge n. 6284. Ne vediamo l’impatto sulla vita delle donne. Oggi la Turchia cerca di attribuire alla Convenzione di Istanbul i costi della mancata applicazione da parte dello Stato delle stesse leggi di cui si è dotato, ovvero della mancata prevenzione della violenza contro le donne. Le tradizioni culturali dei diversi paesi non possono essere una scusa per la violenza contro le donne. Nessun valore può essere superiore alla sicurezza della vita delle donne e al dovere degli stati di proteggere i/le propri/e cittadini/e in ogni circostanza. Questi doveri sono stati ignorati con al decisione di ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul.
La decisione del Governo appare irremovibile, nonostante gli attacchi fisici contro le donne in Turchia siano in numero sempre crescente. È evidente che la scusa con la quale il Paese ha detto addio alla Convenzione (minerebbe la famiglia e incoraggerebbe al divorzio) non possa essere la reale motivazione di rendere carta straccia un quadro legislativo che mette al centro i diritti delle donne. Per questo le attiviste di Mor Çatı Women’s Shelter Foundation non si danno per vinte.
Ritirarsi dalla Convenzione di Istanbul significa cancellare la promessa di combattere la violenza contro le donne fatta a livello internazionale e non riconoscere gli obblighi assunti come Stato di combattere la violenza maschile, condannando le donne a subire violenza. Come donne non rinunciamo nemmeno alle conquiste che abbiamo ottenuto attraverso lotte durate anni, né ci ritiriamo dalle battaglie fondamentali per le nostre vite e dal legame di solidarietà che ci unisce!
La battaglia contro la violenza sulle donne non può essere fatta all'interno dei confini di un singolo Stato. Non può esserci libertà finché a poche migliaia di chilometri da noi ogni tentativo di uscire dalla sopraffazione viene soffocato e spazzato via cancellando leggi e trattati. Perché la lotta è una, e quella delle donne turche è anche la nostra.