Dissolutezza. Immoralità. Sono queste le motivazioni della condanna che il governo egiziano ha espresso nei confronti della danzatrice del ventre Sama al-Masry per aver postato su TikTok un video che la immortala in una sua performance. Tre anni di carcere e tre di obbligo di firma, più una multa di 16 mila euro. La guerra di Al Sisi alla libertà delle donne e al social network cinese è a tutto campo. Sama è solo l’ultima di una lunga serie di ragazze che stanno scontando una detenzione solo per essere quello che rappresentano: delle ragazze giovani che usano il web per esprimere se stesse. Peccato che lo abbiano fatto nel Paese sbagliato.
Le influencer nel mirino del Governo egiziano
Già, perché mentre in tutto il mondo il periodo di lockdown da Coronavirus ha contribuito al proliferare di contenuti e condivisioni online, al Cairo questo crescendo è servito per stanare quelli che il Governo centrale considera oppositori. E nel caso delle donne, le accuse assumono quella stucchevole e provocatoria connotazione sessista: incitamento alla prostituzione o diffusione dell’immoralità. In un Paese conservatore come l’Egitto di Al Sisi i contenuti pubblicati da due influencer, Mawada al-Adham e Haneen Hossam sono censurabili, anzi, le autrici sono state arrestate tra aprile e giugno con motivazioni che in Europa farebbero impallidire. Mawada è stata accusata di “attacco ai valori famigliari” per dei video satirici; Haneen sconta una pena per incitamento alla prostituzione dopo aver pubblicato un video su TikTok in cui insegnava a giovani ragazze come poter guadagnare soldi extra da casa con delle app online. E questa è solamente la cronaca degli ultimi mesi, in un Paese che viola sistematicamente i diritti umani e civili. Ognuno di noi ricorda Giulio Regeni e la sua terribile morte, oltraggiata ogni giorno in più dal negazionismo del Governo e dai continui depistaggi.
Tra moralità e oltraggio alla famiglia: i social sono il nemico di Al Sisi
Se al braccio armato accostiamo la libertà femminile e quella che il web regala, i crimini da politici invadono la sfera “morale”. Perché la donna continua ad avere l’obbligo di rappresentare l’emblema della famiglia, della purezza. E soprattutto ha l’obbligo di stare sempre di lato, come un’ombra di se stessa. Ma le nuove generazioni di donne, che guardano oltre quel lembo di mare che le separa dal continente europeo, utilizzano i social network non solo per una sacrosanta questione di libertà. C’è qualcosa in più in queste ragazze egiziane, che le accomuna sempre più a quelle occidentali: l’aver capito il potere dei social nella promozione della loro immagine. Instagram, TikTok, Facebook, sono contenitori in cui esprimere la loro arte, ma anche semplicemente la loro bellezza e il loro stile. Nel nostro Paese se ne contano a centinaia di influencer che hanno puntato tutto sulla loro fisicità. Fa parte del pacchetto completo che va sotto la voce “libertà”, non ce ne vogliano i benpensanti.
Le donne delle Primavere Arabe e quel sogno di libertà
Il carcere per le influencer è una bomba scoppiata in un momento in cui il mondo intero si è fermato, riversandosi su quello virtuale. Il boccone è ancora più amaro se il teatro di questo orrore è l’Egitto, un Paese che nel 2011 ha visto il proliferare di una delle Primavere Arabe più convincenti e dure. Così dure che capitolò con la resa di Hosny Mubarak. In quell’occasione le donne conquistarono a caro prezzo un posto nelle piazze e una visibilità politica, il loro intervento in quelle manifestazioni di piazza ha lasciato sperare che fossimo arrivati al punto di svolta. Eppure a distanza di anni e con l’arrivo al potere di Al Sisi quel sogno è rimasto in un cassetto. La moralità come giustificazione alla limitazione della libertà femminile è tornata ad essere al banco degli imputati. Ma il desiderio non si ferma, soprattutto quando ha il potere di diventare di massa attraverso i social network. Evitiamo però di derubricare questi soprusi come qualcosa di altro rispetto a noi, soprattutto quando abbiamo il potere, in quanto Stato Italiano, di negoziare accordi economici che non possono più prescindere dal rispetto dei diritti umani.