È bastata una statua a dividere l’opinione pubblica in due fazioni contrapposte. Il dibattito è aperto, seppur confinato maggiormente a Londra, dove questa figura è stata eretta. Parliamo della statua dedicata a Mary Wollstonecraft, madre del femminismo e di Mary Shelley, autrice di Frankenstein. “Ho voluto rappresentare ogni donna” ha detto la scultrice Maggi Hambling, che ha ritratto la Wollstonecraft nuda, in argento, che guarda fiera davanti a sé, a Newington Green. “Deve essere nuda perché i vestiti definiscono le persone”. E la nudità della statua ha provocato reazioni da più parti, alcune davvero scomposte. Da “sembra una Barbie svestita” a “è una decorazione di Natale da sito porno”, il punto poi si è concentrato su una domanda precisa: avete mai visto la statua di un uomo nudo? E forse è questa la ragione per cui ci si sta stracciando le vesti intorno alla faccenda.
Le statue tornano a far parlare di sé, nel bene e nel male
Siamo nell’anno in cui le statue vengono tirate giù o imbrattate: Winston Churchill vandalizzato oltremanica, Indro Montanelli con la vernice rosa a Milano. Nell’ultimo periodo, prima che la pandemia cristallizzasse il mondo intorno a sé, si è riscoperto il valore del simbolo. E proprio per questo ci siamo polarizzati intorno alla rimozione delle statue. Non stupisce, quindi, che anche l’immagine scelta per rappresentare Mary Wollstonecraft faccia discutere. Ci sono voluti 200 anni e un crowdfunding perché questa statua vedesse la luce e ora, che è stata posta, si susseguono le polemiche e gli interrogativi. L’artista si è fatta ingabbiare dallo sguardo maschile? L’eros ha preso il posto della rappresentazione della donna? Domande legittime, a cui è difficile rispondere in maniera univoca, ce ne accorgiamo anche sfogliando la stampa inglese, che sulla faccenda si spacca anche all’interno dello stesso giornale (come nel caso del Guardian o dell'Independent).
Il nudo femminile che ancora sconvolge e fa discutere
Abbiamo perso la familiarità con la rappresentazione dei nudi maschili. Il tema non era da mettere sul piatto nel Trecento o nel Quattrocento, quando fiorivano sculture rotonde di uomini possenti. In quel caso nessuno ha mai parlato di eros o sessualità, quanto piuttosto di forza e potere. Man mano che la storia ha fatto il suo corso, le statue si sono vestite, le donne sono sparite dalla narrazione e la rappresentazione mascolina era accompagnata dallo scolpire le divise militari, simbolo di appartenenza e valore. Ecco allora che, guardando alla storia, l’affermazione della scultrice Maggi Hambling, con il suo “i vestiti definiscono le persone”, acquista significato. Perché i gradi militari, i cavalli su cui poggiano i vari Cristoforo Colombo o Winston Churchill definiscono bene ciò che li ha resi grandi agli occhi del pubblico: sopraffazione e conquista. Come rappresentare, dunque, la madre del femminismo? Con la sua persona, senza orpelli. Eppure sono state proprio le femministe a indignarsi per la scelta. L’attivista femminista Caroline Criado Perez ha parlato di “spreco colossale” e “mancanza di rispetto”. Siamo caduti tutti, ancora una volta, nel binomio nudità-volgarità, tanto da far gridare allo scandalo. Eppure, nel diciottesimo secolo le donne venivano percepite proprio così: piccole e nude. Si può obiettare sulle fattezze del corpo scolpito, troppo perfetto e aderente ai canoni di una bellezza piuttosto moderna (fisico asciutto, seno dritto e rotondo) o se fosse lecito utilizzare la rappresentazione di una figura ben definita come Mary Wollstonecraft per omaggiare tutte le donne. Questo è un dibattito su cui soffermarsi, ma che la nudità possa ancora dar scandalo è piuttosto anacronistica. La nudità di per sé non può essere volgare: lo sono gli atteggiamenti, le movenze, l’approccio di chi guarda quel corpo. Si può contestare la fattezza e la realizzazione della statua, ma credere che l’essere nudi equivalga al non avere rispetto per Mary Wollstonecraft è dire apertamente che sia normale ancora oggi che il corpo senza vestiti parli solo il linguaggio del sesso e non quello dell’universalità.