È conosciuta come “Sindrome di alienazione parentale” e, secondo i giudici della Corte di Cassazione, rappresenta “il comportamento del genitore affidatario che strumentalizza il rifiuto del minore di vedere l’altro genitore, impedendone così le visite stabilite dal Giudice”. Ora immaginate che ci sia una donna vittima di violenza da parte del compagno, che subisca vessazioni per un lungo periodo e che finalmente, dopo mesi o anni, trovi il coraggio di separarsi dal suo aguzzino e ricostruirsi una vita.
Quei figli strappati alle madri nel nome dell'alienazione parentale
Spesso succede che, oltre ad allontanarsi dall’uomo violento, la donna sia costretta a rinunciare anche al proprio figlio. Sembra un film dell’orrore, eppure è realtà. Proprio per contrastare questo fenomeno è nato a Roma il comitato “Femminicidio in vita”, presentato alla stampa la scorsa settimana e che affida ad una efficace nota il succo della loro missione:
“È sufficiente accusare un genitore, di solito la madre, di sindrome di alienazione parentale per arrivare al prelievo dei figli con destinazione casa famiglia o presso il padre, quand’anche fosse violento. I figli non possono essere strappati ai genitori con motivi pretestuosi, soprattutto a quelli che hanno meno mezzi culturali ed economici per difendere i loro diritti”.
I figli, in situazione come queste, sembrano diventare merce di scambio e di rivendicazione. Secondo il Comitato, grossa responsabilità sta proprio nella legge sull’affido condiviso (legge 54/2006):
“Questa legge si è rivelata, negli anni, una clava usata contro le donne, anche nei casi di violenza. Perché se i figli rifiutano di vedere un genitore, ecco che l’altro viene risucchiato in un vortice di consulenze tecniche d’ufficio, colloqui con gli assistenti sociali, guerre di carte bollate. Con finali spesso drammatici: madri descritte come malevole, istrioniche, colpevoli di scatenare conflitti di lealtà nei bambini. Una legge da abolire, o rivedere nelle sue più oscure convenienze”.
La situazione, per come descritta, appare davvero drammatica: perché non viene riconosciuta nessuna differenza tra un bambino vittima di una situazione domestica violenta e una normale separazione tra due coniugi. Il bambino dovrà, per forza di cose, avere a che fare con entrambi i genitori, senza distinzione. E se il giudice stabilisse che la madre è affetta da Sindrome di alienazione parentale, cioè se abbia un risentimento tale nei confronti del proprio compagno (nei casi di violenza che giustifichino un simile sentimento), il bimbo potrà vedere spalancarsi davanti a sé i cancelli di una casa famiglia.
Le madri vittime di violenza, colpite due volte
In Italia, gli esempi di questa deriva, spalleggiata anche dalla discussa legge Pillon che difende a spada tratta la sindrome da alienazione parentale, sono molteplici e vengono illustrate proprio dal comitato Femminicidio in vita:
“Ombretta Giglione di Cittadella, che non vede più suo figlio di 10 anni da quando venne prelevato in modalità coatta a scuola dal padre avvocato; Ginevra Amerighi, alla quale venne strappata a soli 18 mesi la figlia, che non vede da ormai nove anni. Imma Cusmai, a cui la figlia è stata sottratta nel 2013 sulla base di una perizia ‘alterata’ e da allora sta affrontando un calvario pressochè quotidiano per non perdere bambina”.
Il comitato, che lavorerà nella sede di via Tasso 145 a Roma, tra le mura del Museo Storico della Liberazione, ha già annunciato che sabato 6 febbraio sarà sotto gli uffici del Parlamento europeo per protestare contro questo fenomeno. Sarà una lunga battaglia, che nasce dall'assistenza psicologica e legale verso tutte quelle madri che si sono viste strappare i propri figli e arriva a contrastare una legislazione che azzera le differenze e calpesta il dolore. Un primo, importantissimo, passo è stato fatto. Stupisce sempre un po' che la società civile si accorga di un simile orrore prima delle istituzioni, ma la lotta è appena cominciata.