Cocooning: quando la casa diventa il bozzolo in cui rinchiudersi in attesa che la pandemia finisca
In quest'ultimo anno abbiamo cambiato la nostra prospettiva sulle case che abitiamo. Da semplice ‘dormitorio', luogo di passaggio, dove rientrare dopo una giornata di lavoro per prepararsi per un'uscita o un aperitivo, ma posti molto più abitati che da un giorno all'altro si sono trasformati in ufficio, scuola, sala ricreazione e qualche volta, per i più intraprendenti, anche in ristorante. Abbiamo scoperto gli angoli dove batte più sole, il punto in cui il Wi-Fi prende meglio, ci siamo accorti che una libreria è uno sfondo più scenografico per una chiamata su Zoom e che la poltrona in salotto è perfetta non solo per riposare ma anche per lavorare con maggior concentrazione. Abbiamo abbellito le nostre case, rendendole ancora più accoglienti. Le abbiamo tramutate in una vera e propria comfort zone. Un fenomeno che in inglese si chiama Cocooning.
Cocooning: i pro e i contro
Il film di Ron Howard del 1985 non c'entra niente con questo termine. A utilizzare il termine Cocooning per spiegare la scelta consapevole di restare in casa, nel proprio bozzolo (in inglese appunto cocoon) è stata nel 1981 l'esperta di marketing Faith Popcorn, che descrive questo comportamento come: "La scelta di restare in casa, lontani dal pericolo che c'è all'esterno". Le case diventano luoghi confortevoli, caldi, dove è possibile svolgere qualsiasi tipo di attività, dal lavoro al tempo libero, e fungono da guscio di protezione da tutto quello che c'è fuori. In quest'ultimo anno abbiamo praticato tutti il cocooning, ma in maniera decisamente meno libera di quella che immaginava Popcorn. "Oggi le case sono il luogo di protezione per eccellenza – ha spiegato a Fanpage.it la psicologa e psicoterapeuta Eleonora Iacobelli – Dovendoci passare così tante ore le abbiamo rese confortevoli, le abbiamo adibite a luoghi di lavoro, abbiamo cercato di trovare in ogni casa uno spazio riservato per ogni abitante". Per alcuni ormai uscire di casa è diventato impossibile, abbandonare il bozzolo è troppo rischioso. "L'altra faccia del cocooning è che oggi alcune persone hanno paura di affrontare quello che c'è fuori, si fanno recapitare la spesa, evitano anche di fare due passi nel proprio quartiere. E il confine con la fobia in questi casi è davvero molto sottile".
Imparare a stare bene con sé stessi
Un aspetto positivo del cocooning (quando non costrittivo) è che chi lo pratica ha un rapporto molto sereno con sé stesso. "Saper apprezzare la compagnia di sé stessi può essere assolutamente positivo. Anzi la capacità di stare da soli, di riflettere tra sé e sé è auspicabile. È anche positivo e funzionale imparare a fare a meno degli altri". Ma come in tutte le cose ci vuole misura. "Il cocooning può diventare problematico quando ci chiudiamo eccessivamente, quando ci dimentichiamo che esiste un mondo al di fuori del nostro bozzolo. Quando dimentichiamo alcune delle nostre abilità sociali e non riusciamo più a interagire in maniera serena con gli altri".
Quando il cocooning diventa un problema
Quando iniziamo a evitare di uscire anche per fare la spesa, se ci accorgiamo che la sola idea di mettere il naso fuori di casa ci crea un disagio, è bene iniziare subito a lavorare su questo comportamento prima che diventi un problema. "Se questa chiusura diventa una sofferenza, nel momento in cui ce ne accorgiamo cerchiamo di iniziare a fare dei piccoli sforzi. Facendo ben attenzione però a non forzarsi che è diverso. Sforziamoci di scendere a fare un giro intorno al palazzo, di scendere a buttare la spazzatura, ma un passo alla volta". Partire da piccoli gesti per riabituarci piano piano all'idea di un contatto fuori dal nostro guscio. "Lo stesso possono fare le persone intorno a noi che si accorgono di questa chiusura: possono proporre a un familiare o un amico in difficoltà delle brevi passeggiate in posti spaziosi e sicuri". Se però uscire ci crea disagi, ansia, sudorazione, preoccupazioni, difficoltà a dormire vuol dire che c'è qualcosa di più profondo da dover affrontare. "Non si tratta più di una naturale difficoltà a riprendere le normali attività quotidiane, ma di qualcosa di più complesso. Per questo è bene rivolgersi a un esperto il più presto possibile per evitare che questo disagio si cronicizzi e si tramuti in qualcos'altro".
Cocooning e sindrome della capanna
Nell'ultimo anno si è parlato spesso anche di sindrome della capanna, chi ne soffre si rinchiude in casa per paura di quello che c'è fuori. I 14 mesi di pandemia hanno provocato un aumento significativo delle persone che fanno i conti con questo tipo di problema. "La differenza col cocooning però è nella spinta positiva di quest'ultimo. Chi ‘fa cocooning' si prende cura della casa, crea un vero e proprio nido in cui possa stare bene. C'è una propositività e una positività differente. La sindrome della capanna è tutta incentrata invece sulla difesa". La casa diventa un luogo di riparo e basta, poco importa renderla più bella o più accogliente. "Nella sindrome della capanna le energie sono tutte canalizzate verso la protezione e la chiusura. Nel cocooning c'è comunque un versante di vitalità". Rendere le nostre case più belle, più abitabili, più ospitali e meno freddo va bene, ma teniamoci pronti per poter di nuovo goderci le passeggiate, i bar e i ristoranti, e anche i nostri uffici, nell'attesa di una nuova normalità.