Squid game: la psicologa spiega i motivi del successo della serie
111 milioni di spettatori nel mondo hanno visto (o almeno l'hanno iniziata) Squid Game. La serie coreana di Netflix che in meno di un mese ha battuto anche Bridgerton di Shonda Rhimes. I protagonisti, 456 uomini e donne che vivono in difficoltà economiche e ricoperti dai debiti, accettano di partecipare a un gioco di cui non conoscono le regole ma che promette una vincita milionaria. Quando la competizione inizia scoprono che si tratta di rivisitazioni all'ultimo sangue di giochi da bambini (il primo è Un-due-tre stella, l'ultimo è lo Squid Game, ovvero il gioco del calamaro, un antico gioco coreano) dove non c'è alternativa: o si vince o si muore.
In ogni episodio (nove in tutto) si respira disperazione, angoscia e sadismo. Non esistono momenti ludici, a dispetto del fatto che ogni gara sia chiamata ‘gioco', non esistono momenti di leggerezza, eppure lo spettatore resta incollato, incapace di smettere di guardare, in attesa di scoprire chi sarà il prossimo a morire. "Squid game richiama a tutti due temi che si trovano ai due poli opposti – ha spiegato a Fanpage.it la dottoressa Alessia Romanazzi, psicologa, psicoterapeuta e autrice insieme a Giorgia Romanazzi del podcast TV Therpay – Da un lato c'è il tema dell'infanzia, del nostro passato. I giochi ci riportano indietro nel tempo, in certi casi anche in maniera nostalgica, ma allo stesso tempo ci possono condurre alla morte che è appunto l'altro tema centrale. In particolare è la paura della morte a caratterizzare Squid Game".
Perché ci piace Squid Game
Squid game ci dice qualcosa di noi. Tocca delle corde che forse neanche noi sapevamo di avere. Pensiamo ai personaggi della serie che si comportano in modo decisamente poco etico che devono continuamente scegliere se salvare sé stessi o uccidere un altro partecipante. "Nel momento in cui possiamo concederci di stare incollati a vedere dei personaggi che si comportano in maniera socialmente inaccettabile, di fare il tifo per alcuni di loro e di augurarci la scomparsa di altri, di fatto ci stiamo sfogando. Stiamo dando voce a quella parte di noi decisamente meno etica. È un modo per liberarsi della nostra parte peggiore senza fare danno a nessuno". La serie gioca continuamente sulla dicotomia egoismo-altruismo, dove è il sentimento egoista a trovare quasi sempre maggiore spazio. "Si tratta anche in questo caso di un'ambivalenza che spesso incontriamo nella vita quotidiana. Di scelte che ci troviamo a fare continuamente. Penso a me, in maniera egoistica, senza tener conto dell'altro? Oppure sono altruista e corro il rischio di non agevolare me stesso? In realtà la serie ci mostra come a volte aiutare gli altri voglia dire anche aiutare sé stessi e come il gruppo ci permetta in alcuni casi anche di sopravvivere".
La paura della morte
Poveri, pieni di debiti, con poche possibilità di sopravvivere nel mondo reale: sono così i personaggi di Squid Game, che vedono nel gioco la loro ultima spiaggia. L'ultima possibilità per provare a riprendere il controllo della propria esistenza, seppur giocando continuamente con la morte. "L'angoscia della morte è l'altro elemento ricorrente in Squid Game. È un tema che oggi tocca tutti, insieme alla voglia di riprendere il controllo della propria vita. Pensiamo a quello che abbiamo passato durante i mesi della pandemia, le nostre vite erano bloccate. Il Covid in qualche modo ci ha tolto il controllo delle nostre vite e soprattutto ha innescato in tutti noi la paura della morte, togliendoci la spensieratezza e la leggerezza". In questo senso una serie cruenta e angosciante come Squid Game, funziona quasi da catarsi. "La vediamo a distanza, seduti sul divano, ci consente di riflettere su cosa è etico e su cosa non lo è".
Squid Game e binge watching
Nonostante il fatto che la morte caratterizzi tutte le puntate di Squid Game, le scenografie, le musiche e anche la rapidità con cui gli eventi si susseguono nella serie, non consentono allo spettatore di percepire tutta la crudezza di quello che succede. "Tutto è molto alleggerito, non c'è pathos. Le musiche che accompagnano i giochi, i colori pastello delle pareti che ricordano quelli di un asilo e che richiamano l'infanzia, rendono tollerabile la serie anche a persone che solitamente non amano questo genere. I compagni d'avventura muoiono continuamente, ma non c'è tempo di pensare a loro perché si passa subito ad altro". È una serie che ti fa stare scomodo ma incollato al divano, e molti hanno visto le puntate una dopo l'altra senza mai interrompere. "Quando c'è il binge watching – spiega la psicologa – è perché ci sono delle caratteristiche collettive, dei temi che tengono incollati allo schermo perché devono essere elaborati in fretta. Facciamo fatica a starci su e a pensarci per troppo tempo. Oppure ci sono dei motivi individuali, ad esempio la fatica a tollerare la frustrazione di stare nel limbo, l'impossibilità di lasciare qualcosa in sospeso a provocare il binge watching".
Squid game: una serie virale
Uno dei motivi per cui la serie è diventata virale è sicuramente anche la FOMO, ovvero la paura di essere tagliati fuori (Fear Of Missing Out). "La FOMO è quella paura che arriva quando si sta senza smartphone per troppe ore, quando non si accede ai social per troppo tempo. E può scattare anche per una serie tv. Molti l'hanno guardata perché se ne parla così tanto che non volevano restare indietro". Ma ad aver reso virale la serie è anche l'abbattimento di qualsiasi barriera culturale. "Con questa serie abbiamo visto giochi come Un-due-tre stella o le biglie che sono uguali in tutto il mondo, non abbiamo dovuto concentrarci sulle regole perché erano semplici da capire e siamo riusciti a focalizzarci solo sulle emozioni. Da occidentali guardiamo i protagonisti che rappresentano un'altra cultura e un altro mondo ma vediamo in scena delle dinamiche psicologiche, delle emozioni che sono universali perché innate. Dall'altro lato però il fatto che si tratti di una serie ambientata in Corea ci rende più complessa l'immedesimazione. Siamo coinvolti ma allo stesso tempo riusciamo a mantenere una certa distanza. E ci sentiamo tutelati proprio perché il contesto è troppo lontano dal nostro".