Laurel Hubbard, prima trans alle Olimpiadi: l’identità di genere nello sport, tra diritti ed equità
La notizia della partecipazione alle Olimpiadi di Laurel Hubbard arriva proprio nel mese del Pride. La sollevatrice di pesi neozelandese 43enne, nata di sesso maschile, ha completato il suo percorso di transizione anni fa. Gareggerà nella categoria femminile degli 87 Kg e sarà a tutti gli effetti la prima atleta transgender a competere ai Giochi, in programma a Tokyo dal 23 luglio all'8 agosto 2021. Il mondo sportivo ha reagito in modi diversi nell'apprendere di questa vera e propria rivoluzione, che arriva dopo anni in cui si è dibattuto sul tema della partecipazione delle MtF (Male to Female) alle competizioni sportive. Attualmente il suo record di sollevamento è di 285 Kg.
Chi è Laurel Hubbard
Nata nel 1978 col nome Gavin, Laurel Hubbard tra il 2012 e il 2013 ha portato a termine il suo cambio sesso assumendo il nuovo nome e proseguendo la sua carriera sportiva nelle categorie femminili, dopo aver ottenuto l'idoneità. L'atleta in precedenza aveva già gareggiato nell'ambiente della pesistica, anche se la svolta è arrivata solo agli Australian International & Australian Open del 2017 a Melbourne: quella medaglia d'oro le è valsa il titolo di prima persona transgender a vincere un titolo internazionale di sollevamento pesi per la Nuova Zelanda. Nel tempo le sue partecipazioni e vittorie sono aumentate, aggiudicandosi anche due medaglie d’oro ai Giochi del Pacifico 2019 a Samoa e laureandosi campionessa mondiale nella gara femminile 87 Kg ai Mondiali di Roma 2020. La partecipazione alle Olimpiadi 2021 va a coronare un sogno. "Sono grata ed emozionata per la gentilezza e il sostegno che tanti neozelandesi mi hanno mostrato" ha dichiarato lei stessa, consapevole che la sua presenza ai Giochi segna uno spartiacque cruciale nella storia delle persone transgender.
Si riaccende il dibattito: pro e contro Laurel Hubbard
Le nuove linee guida del Comitato Olimpico Internazionale prevedono che qualsiasi atleta transgender possa competere come donna a condizione che abbia livelli di testosterone inferiori alla soglia richiesta, per almeno 12 mesi prima della gara. Insomma, non è necessaria l’operazione chirurgica. La Hubbard soddisfa il criterio di ammissibilità, ma ciò non è sufficiente a placare le polemiche. Il dibattito si è nuovamente acceso, tra coloro che ritengono ingiusta la sua presenza nei confronti delle altre atlete e chi invece ritiene che l'identità di genere nello sport vada affrontata con la massima apertura in un'ottica inclusiva e rispettosa. "Qualsiasi riduzione del testosterone, anche a zero, in realtà non invertirebbe il vantaggio prestazionale che deriva dall'aver vissuto la pubertà maschile, perché non si può invertire questo", ha detto all'ABC la scienziata ed atleta transgender Joanna Harper (consulente del CIO), secondo cui dunque ci sarebbe un vantaggio sleale dovuto a una forza maggiore. E si è detta contraria anche Caitlyn Jenner, che ha vinto la medaglia d'oro olimpica di decathlon maschile prima di completare decenni dopo la transizione. Della stessa idea anche la tennista lesbica Martina Navratilova, nove volte campionessa di Wimbledon: a suo dire è folle consentire agli atleti transgender nati di sesso maschile di competere contro donne biologiche.
Identità di genere e sport: questione spinosa
Quella presa nei confronti di Laurel Hubbard è una decisione storica per la comunità LGBTQ+, che ha visto riconoscere alla Hubbard il suo diritto a essere considerata una donna a tutti gli effetti. Ma trovare una mediazione tra la legge, l'inclusione, i rigorosi parametri scientifici stabiliti dagli esperti e il parere delle persone coinvolte è difficile. I contrari lamentano che sarebbe un'ingiustizia nei confronti delle altre atlete, se ci fossero dei vantaggi derivanti dallo status di ‘non biologicamente donna'. Garantire un trattamento equo a chi gareggia è essenziale nello sport, per sua natura fatto di estremo rispetto. E proprio il rispetto oggi più che mai deve guidare la società verso scelte e decisioni improntate all'inclusione piuttosto che alla discriminazione. La cronaca testimonia quanto lavoro ci sia ancora da fare, in nome dell'accoglienza della ‘diversità'. Giugno però è il mese del Pride, quello in cui un po' di più ci viene ricordata la bellezza e il valore delle persone in ogni loro sfumatura di sesso e di genere. E lo sport, è da sempre il mondo dell'ospitalità, dove la cultura dell'inclusione deve continuare a essere un valore portante. Per questo è essenziale trovare una chiave che possa portare equilibrio nella complessa questione dell'identità di genere nello sport, affinché tutti possano sentirsi rappresentati con rispetto garantendo la fondamentale parità di condizioni quando si è in gara.