La pagina principale del sito In Quanto Donna è una gallery di ritratti di donne uccise dai loro partner, mariti, ex fidanzati, uomini respinti. Padri a volte. L'impatto d' insieme è fortissimo: sono ritratti di fantasmi sorridenti accompagnati da poche righe sulle brutali modalità dell'uccisione. Tutte insieme ci raccontano di una piccola strage in corso, che si rinnova giorno per giorno, la traduzione in immagini di numeri e statistiche. L'ultima statistica di Eures dice che nel 2013 sono morte 179 donne. Una ogni due giorni.
Se si scorrono le didascalie in cui sono solo descritti i modi in cui hanno operato gli assassini, si costruisce una narrazione di brutalità inaudita, sopraffazione e violenza. All'interno dei ritratti, a volte, c'è anche la foto del volto dell'assassino e il link agli articoli che riguardano ogni singola storia. Anche qui, Emanuela Valente la giornalista e blogger che ha inventato e cura il sito, sottolinea graficamente la ripetitività delle formule adoperate dalla cronaca dei media. Sono frasi che individuano rozzamente le ragioni di un gesto di violenza: il furore, il raptus, “ha perso la testa”, “non ci ha visto più per la gelosia”. Una narrazione fuorviante, mai vera, ma che sgonfia la portata del gesto relegandolo sempre ai margini della follia.
“Questo sito è nato nel 2012” dice Emanuela “stavo creando un database per analizzare come venivano raccontate dai media le storie di donne uccise dagli uomini. Per questo, avevo creato una cartella nel mio computer. Un giorno, aprendola, mi sono resa conto di quanto facesse impressione l'insieme: mi colpiva soprattutto il fatto che riguardasse donne di ogni tipo, classe sociale, e età. Riguarda chiunque. E poi colpisce come vengono date le notizie. Ad esempio chiamano “raptus” quello di fare più di 300 chilometri per andare ad uccidere la fidanzata. E' sempre ricondotto a un momento di follia dell'uomo. Le statistiche invece parlano di raptus solo nello 0,01 % dei casi. Altro cliché è “l'ennesimo litigio” che implica un'idea di reciprocità che non c'è. Insomma si fornisce sempre una sorta di attenuante, si vuole sempre suggerire l' incidente, e non si dà invece valore alla questione culturale e alla premeditazione”.
Raccontare diversamente a che serve e come andrebbe fatto?
Innanzitutto astenendosi dall'inventare, presumere e fantasticare sulle cause dell'uccisione visto che la vittima non può più né parlare né difendersi. Ci si deve attenere ai fatti. Inoltre non si deve raccontare come se fossero storie solo private: c'è una componente culturale, un disagio maschile che fatica a gestire le forme di affetto paritario. Le motivazioni sono quasi sempre le stesse e convergono in una sola: uomini che si ritengono proprietari della vita delle donne. Evitare false rappresentazioni aiuterebbe a far emergere il clima di brutalità attorno alla vittima, creare, ad esempio, una logica di prevenzione e a riconoscere i segnali. Nella maggior parte delle storie, c'è una storia di recidiva che è stata trascurata da chi avrebbe dovuto. Emiliana Femiano era già stata una volta ridotta in fin di vita dal suo ex. Dopo 10 mesi, una volta fuori dal carcere, lui l'ha ammazzata con più di 60 coltellate. Deborah Rizzato è stata uccisa dalla persona che 10 anni prima l'aveva violentata e che per questo è finito in carcere. Una volta fuori lui è andato a cercarla, e l'ha uccisa. Sonia Balconi e Maria Montanaro, sono due donne dello stesso ex. Uccise entrambe lo stesso giorno…
Qual è l'obiettivo di questo archivio oltre ad essere il racconto in progress di una strage?
E' un osservatorio permanente aggiornato ai casi in cui si è già andati a processo, e ora sta diventando sempre più un gruppo di pressione vero e proprio. Qualche giorno fa, ad esempio, abbiamo scritto una lettera al direttore di La Gazzetta del Sud. Una donna era stata appena uccisa a colpi di pistola con due bambini. Il titolo era: “lei lo aveva portato all'esasperazione”. E' mai possibile legittimare un omicidio in questo modo? L'articolo, dopo la lettera, è sparito dall'on line. Qualche anno fa non sarebbe successo. E' segno che le nostre lotte fatte anche grazie ai social stanno portando dei frutti. Inoltre la lista dei firmatari si allunga sempre di più e non ci sono solo singoli ma ormai anche gruppi, associazioni, università, il messaggio allora si fa consistente perché appoggiato da strutture. Anche se il sito è ancora tutto casalingo (non vedo nessuno che oggi mi finanzierebbe o me lo farebbe fare) a volte mi arrivano i complimenti, in privato, di direttori di grandi giornali. E questo anche mi dice che la strada che ho intrapreso è giusta.
Ci sono anche i volti degli assassini nelle gallery…
In genere nei media i volti degli autori dei femminicidi non appaiono mai: una foto di un assassino ogni cinque donne uccise, e a volte la foto di lui ha la benda nera sugli occhi. Se lei è stata uccisa, la si può anche vedere nuda. Anzi a volte i parenti lo vengono a dalla foto del cadavere. Solo la persona uccisa potrebbe fare una causa di rivalsa. Il giornalista che scrive su una morta qualsiasi cosa, non rischia.
Emanuela Valente è oggi contattata da molti familiari delle donne uccise che vorrebbero creare la figura di un garante delle vittime: “molte di loro vorrebbero prendere gli articoli usciti e correggerli con la loro penna. Vorrebbero riscrivere le loro storie”. E dare pace a quei fantasmi.