Reham Yacoub era una giovane donna irachena, animatrice di tante proteste antigovernative che dall’inizio di quest’anno stanno infiammando le piazze di Baghdad. Un’attivista, punto di riferimento per le lotte di Bassora, nel sud dell’Iraq. Il 19 agosto Reham è stata assassinata da un comando armato nel centro della cittadina, pochi giorni dopo l’uccisione di un’altra donna simbolo del Paese: Tahseen Osama. I colpevoli vanno rintracciati nella polizia governativa e nelle milizie filoiraniane, che stanno mietendo vittime appartenenti alla società civile ormai da tempo.
I motivi della protesta
Neanche il coronavirus è riuscito a fermare l’ondata di rivolte e indignazione del popolo iracheno che da mesi lotta per un cambiamento radicale che metta fine alla corruzione del potere, alla povertà, al clientelismo che fa da padrone. Una generazione in rivolta, si potrebbe dire, perché le piazze di Baghdad sono piene di giovani che vogliono spezzare le proprie catene. Se fino agli scorsi anni la partecipazione femminile alle proteste era davvero irrisoria, quest’anno le donne irachene sono le protagoniste. Per la prima volta nella storia del Paese si sono unite alla protesta degli uomini con le stesse legittime richieste, ma accompagnate da una voglia di cambiamento che appartiene solo a loro stesse.
Il volto della donne nelle rivolte in Iraq
Il ruolo della donna infatti, con i governi confessionali al potere dal 2003, ha subito un drastico cambiamento sul modello del vicino Iran. Hijab obbligatorio, matrimoni precoci, limitazioni alla propria autodeterminazione. La vita delle donne è precipitata in un buco nero. E se per più di dieci anni, anche a causa grave conflitto che gravava sul Paese, sono state in silenzio, da mesi ormai si sono prese le piazze e lottano con i propri concittadini uomini. L’assassinio di Reham e di Tahseen ha indignato la società civile, che viene colpita quotidianamente da retate e gas lacrimogeni, e ha fatto sì che la lotta non si fermasse ma coinvolgesse ancora più donne. Lo sgomento è partito dal web, con chiari segni di protesta levato da più voci, e si è riversato nelle piazze del Paese ormai occupate da febbraio e tornate ad essere piene nonostante la pandemia. A nulla sono servite le dimissioni del primo ministro Adil Abdul-Mahdi, formalmente accettate dal parlamento iracheno il primo dicembre 2019 non hanno affatto escluso gli scontri con le forze di sicurezza che invece hanno portato a oltre 400 morti e 19.000 feriti, a cui si devono aggiungere alcuni casi di attivisti sequestrati. Le donne irachene, nella lotta con gli uomini del proprio Paese, esigono una politica libera dal malaffare sulla pelle dei cittadini e, in più rispetto ai propri compagni, sentono l'esigenza di essere libere dalle catene che i governi confessionali hanno stretto ai loro polsi. Per questo non si fermeranno.