Ghali, rapper e stilista: “La moda deve arrivare alle periferie. Ai ragazzi oggi la diversità non fa paura”
Un ponte tra culture diverse, tra i colori del marchio italiano Benetton e le suggestioni della cultura tunisina, tra la varsity jacket dei college americani e l'hijab, il copricapo islamico. Tutto questo è United Colors of Ghali, la capsule collection disegnata dal rapper Ghali per Benetton. I capi, presentati in anteprima durante la Milano Fashion Week, ora sono in vendita sul sito e nei negozi: ci sono le tute con il logo all over, le felpe in colori pop con le scritte in arabo e ovviamente gli hijab colorati unisex, il simbolo di un'Italia sempre più inclusiva e multietnica. Ghali però ha voluto portare la sua collezione nei luoghi apparentemente più lontani dalla moda, le periferie delle città. I quartieri più lontani dalle scintillanti vetrine del centro spesso sono un laboratorio dimenticato ma pieno di energie, dove nascono nuove culture, nuova musica e nuovi stili. Ghali, cresciuto nella periferia milanese di Baggio, lo sa bene: nelle sue canzoni si mescolano le sue origini tunisine e le voci nuove di una generazione che preme per affermarsi. Lo stesso mix che ha voluto interpretare con i suoi vestiti. Fanpage.it ha intervistato il rapper di ritorno dal suo tour delle periferie per parlare del suo rapporto con la moda e della sua collezione: "I rapper sono i nuovi designer – ha spiegato ai microfoni di Fanpage.it – modellano la cultura".
Quest’anno sei diventato stilista per Benetton, firmando una tua capsule collection: a cosa ti sei ispirato per disegnarla?
Sembrerà scontato, ma oltre alle storiche produzioni di Benetton ho preso spunto dalla mia storia esattamente come faccio con la musica. I patch sul varsity jacket, la scelta di avere hijab o l’attenzione alla linea per ragazzi e bambini sono tutti elementi del mio percorso e del mio vissuto che sognavo di vedere nei negozi. Oggi sono molto felice di poter portare questa linea in giro per l’Italia!
Per presentare la capsule collection hai fatto un tour nelle periferie delle città italiane, luoghi che per te hanno un significato importante ma che sono considerate “lontane” dalla moda: è possibile far parlare questi due mondi?
Oltre che possibile credo sia necessario. La moda, quando contiene messaggi di inclusione, deve diventare parte del vissuto delle periferie. Io da bambino sognavo di poter entrare nei negozi del centro per indossare gli abiti. Oggi perciò mi sembrava bello andare nelle zone che riconosco più come “mie” per fare una cosa che da bambino mi avrebbe esaltato: vedere qualcuno che venga a parlarmi nei miei luoghi.
Nella tua collezione (così come nella tua musica) fai dialogare due culture, le tue radici tunisine e il tuo presente in Italia: com’è stata l’accoglienza da parte del pubblico?
Direi ottima! Il mio pubblico ha capito che essere artista oggi vuol dire comunicare nel senso più ampio, a 360 gradi. A me piace dire che i rapper sono i nuovi designer perché modellano un po’ la cultura e in questo senso secondo me è giusto seguire la possibilità di esprimersi al di fuori delle canzoni. Certo, presto torneranno anche quelle: alla fine sono la cosa che più amo fare!
Tra i pezzi cult della tua collezione ci sono gli hijab colorati: oggi sono entrati nella quotidianità o vengono ancora guardati con diffidenza?
Spero che operazioni come questa aiutino a superare proprio questa diffidenza. Credo che in parte ancora esista, ma ormai indossare l'hijab è talmente normale per i ragazzi che presto diventerà normale per tutti. Quando andavo a scuola io gli italiani di seconda generazione in classe erano pochissimi: oggi chi cresce fra i banchi riconosce che la diversità è normale e non fa paura.
Hai definito il mood della collezione ‘cozy', adatto al momento che stiamo vivendo: la pandemia influenza ancora il modo in cui ci vestiamo?
Sicuramente un po’ si, ma diciamo che noi del mondo hip hop portiamo avanti questo tema della comodità da molto prima! (Ride, ndr)
Il mondo della moda in Italia ha bisogno di aprirsi di più alla diversità?
Credo di sì, anche se ho trovato un mondo già molto ricettivo in questo senso, forse più di altri ambienti! Sembra poco, ma l’avermi dato tanta libertà e tanto sostegno nel realizzare questa campagna per me vuol dire già qualcosa.
Tu che rapporto hai con i vestiti? Questa esperienza ti ha fatto guardare la moda con occhi diversi?
Io li amo da sempre! Anzi, io e mamma siamo sempre stati molto appassionati. Quando ero piccolo, era lei, quando riusciva a portarmi per negozi e oggi ne apprezzo il sacrificio. Questa esperienza ha dato seguito alla mia passione facendomi vedere concretamente come si fanno i vestiti, una cosa che non avevo mai avuto modo di approfondire.
Il tuo tour si è appena concluso: qual è il ricordo più bello che hai di questa esperienza?
Non ho un ricordo preciso ma una sensazione che mi porto via: l’incontro con i fan nella varie città. Era dal firmacopie di DNA (sospeso a metà per la pandemia, ndr) che non vedevo delle persone dal vivo e questa cosa come sempre mi ha davvero emozionato. Spero sia stato bello per loro anche solo la metà di quanto lo sia stato per me.