Donne nemiche delle donne: esiste la solidarietà femminile o è davvero impossibile fare squadra?
Si chiama catfight: è la lotta fra donne che se le danno di santa ragione, che si graffiano, si prendono a calci e si tirano i capelli. Il termine fa riferimento, letteralmente, allo scontro tra gatte e risale a metà Ottocento, poi nell'America del secondo dopoguerra ha preso a identificare un vero e proprio momento di intrattenimento pensato per uomini: guardare le donne azzuffarsi diventa un passatempo piacevole per gli occhi. Quando si tratta di farsi la guerra non c'è bisogno di un ring, perché le donne sono bravissime a farsela anche nella vita di tutti i giorni: si mettono i bastoni tra le ruote a vicenda, sono ipercritiche tra loro, si guardano più come avversarie che come alleate. Spesso è la società a far sì che non si creino le condizioni per vivere un rapporto sano, volgendolo al negativo con sfumature di invidia, competitività, confronto, offesa. Ed è un peccato, perché come ha spiegato la dott.ssa Maria Claudia Biscione a Fanpage.it proprio la solidarietà femminile potrebbe dare una grande spinta all'empowerment.
Avversarie sul lavoro, sorelle nel privato
L'incapacità delle donne di fare squadra sul posto di lavoro e l'essere tendenzialmente cattive tra loro è un dato di fatto. Eppure hanno delle doti emotive ed empatiche che se messe a frutto correttamente potrebbero fare la differenza. Lo ha spiegato la dott.ssa Maria Claudia Biscione a Fanpage.it: «Siamo molto abituate all'idea che le donne non facciano squadra per niente, che ci siano grandi livelli di competizione e screditamento reciproco. Ma d'altra parte ci sono altri contesti dove le donne riescono benissimo a fare squadra. A differenza degli uomini, infatti, hanno la capacità di un linguaggio emotivo ed empatico, che consente di creare legami più profondi». La vera discriminante è la situazione, è il contesto sociale, che permette o no alle donne di venirsi incontro davvero e trovare un territorio comune dove far scattare questa capacità di entrare in relazione. Lo dimostra il fatto che, al di fuori di contesti dove si è sottoposte a giudizio (per esempio nell'amicizia, quella vera) le donne raggiungono livelli di intimità e condivisione non paragonabili a quelli dell'amicizia tra uomini: «Sono forme di amore assoluto, è una relazione in cui ci si fa specchio l'una con l'altra e ci si ama in una forma molto autentica. La complicità, il dialogo, la condivisione che raggiungono le donne è lontana anni luce da quella che si crea tra uomini: hanno competenze emotive diverse».
Screditare per emergere: ma è producente?
Le donne sono molto competitive, ma a differenza degli uomini utilizzano molto di più l'arma dello screditamento. L'analisi della dott.ssa Biscione prende in causa un aspetto importante: le pressioni sociali e il fatto che si sia lontani da una vera parità: «Se c'è un osso solo, la dimensione di conflitto è grande. I lavori femminili patiscono discriminazione di ruolo e di stipendio, la carriera è possibile a discapito della vita sentimentale e affettiva. Non c'è una normalizzazione del lavoro inteso come: tutte possiamo avere accesso con le stesse disponibilità e possibilità». Insomma, se c'è una discriminazione a monte la sensazione di pericolo che si avverte è maggiore. Ed è un vero peccato, perché se si riuscisse a portare anche sul lavoro quell'empatia e quella sensibilità di cui le donne sono capaci, si creerebbero contesti fortemente produttivi. Si tratta di un'esperienza che la dott.ssa Biscione conosce in prima persona: «Le esperienze tutte al femminile, lo vivo personalmente, sono magiche. Le donne che lavorano tra loro, in contesti voluti, dove non c'è valutazione dell'uomo, danno vita a scenari virtuosi che funzionano benissimo. In un contesto di rilassamento, dove non sono costrette a dimostrare cosa sono, quanto valgono, quanto meritano di andare avanti danno il meglio».
L'offesa fisica è l'arma più usata
Fenomeni come il body shaming e lo slut shaming coinvolgono proprio le donne e dimostrano quanto viviamo ancora in una società condizionata dal maschilismo e dal sessismo, che si riversano anche nel linguaggio quotidiano. Sono le donne in primis a usare certe espressioni e a portare la dimensione dell'offesa personale anche sul lavoro. La dott.ssa ha osservato: «Fa parte del linguaggio quotidiano l'offesa su tematiche fisiche e sessuali: purtroppo è iper presente nel nostro schema linguistico e di ragionamento. Quindi è facile usarlo. Se parliamo del lavoro, è difficile sentir dire "È un'incompetente", questa parola si usa difficilmente. Quello che senti è: "È andata a letto con qualcuno per arrivare lì". Oppure c'è l'offesa fisica: "Quella cicciona", con forte accanimento».
La solidarietà femminile è possibile, ma poco attuabile
«Bisogna creare spazi dove allenare le donne a far rete, a essere unite: quando sono unite vincono, perché il loro livello di competenza si centuplica» secondo la dott.ssa Biscione. E in effetti se ci fosse davvero parità di genere, forse le donne sarebbero più ben disposte verso le altre donne e non sentirebbero l'esigenza di emergere l'una a discapito dell'altra, né quella di dover per forza avere l'approvazione di un uomo: «Spesso patiscono questa insicurezza atavica, questa bassa autostima, questa difficoltà a sentire il coraggio di poter fare le cose da sole: c'è questa idea malsana di appoggiarci a un uomo che ci completi. Ma noi abbiamo dentro di noi tutto quello che ci serve». E tra tutte queste armi a disposizione, bisognerebbe forse togliere un po' di spazio allo screditamento di cui sopra per lasciarlo alla sicurezza in se stesse: in questo modo si sentirebbe meno il bisogno di approvazione a tutti i costi e l'esigenza di essere per forza migliore di un'altra.