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Conosco il mio vicino, è un mio amico, non un terrorista

Mentre la paura di ciò che non conosciamo o pensiamo di conoscere ci blocca, c’è chi, come tutti quei ragazzi che sono un mix di culture, si trova in bilico tra il rinnegare se stesso e il doversi difendere per ciò che non è.
A cura di Zeina Ayache
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Ancora una volta le origini geografiche, per non parlare di quelle religiose, diventano motivo di imbarazzo, fanno sentire in difetto e stimolano il bisogno di dissociarsi.

Ancora una volta ci si sente in dovere di discutere con chi, con troppa superficialità e voglia di dar aria ai pensieri, afferma la propria xenofobia con l'evergreen “non sono razzista, però…”.

Ancora una volta ci si limita al dualismo del buono/cattivo, cattolico/musulmano, occidentale/mediorientale, giusto/sbagliato per dare un senso ad una realtà che non sembra prevedere nulla di positivo.

Eppure dovremmo averlo capito che la religione è solo una scusa, che il nostro vicino di casa da 20 anni non può essere considerato responsabile della follia di un individuo che con lui condivide solo il Paese natale, che l'odio genera odio e che la frustrazione sociale è ciò che porta una persona a sentirsi esclusa e quindi ad avere bisogno di trovare un gruppo all'interno del quale esprimere un'identità, qualsiasi essa sia.

Non c'è bisogno di ricordare che i musulmani nel Mondo sono un miliardo e mezzo e che se tutti fossero terroristi noi oggi non saremmo qui a parlare perché saremmo scomparsi ormai da tempo.

Non c'è bisogno di ricordare che gli immigrati o i rifugiati non ricevono un bonifico di 35 euro al giorno sul loro conto corrente.

Non c'è bisogno di ricordare che coloro i quali cercano rifugio nel nostro Paese stanno scappando proprio da chi ci fa tanta paura.

O forse sì?

Mentre lo sconforto avanza e mentre c'è chi si sente ancora in dubbio sulla correttezza di bombardare persone innocenti, i ragazzi che non sono al “100% occidentali” si ritrovano di nuovo, involontariamente, al centro dell'attenzione divisi tra la voglia di rinnegare il Paese dei genitori, così da togliersi direttamente il dente dell'identità, e la strana sensazione che, forse, il loro destino sia proprio quello di fare da ponte. E un ponte, si sa, è soggetto a continue sollecitazioni, a traumi, a sforzi, ma se è stato costruito su solide basi diventa fondamentale per permettere alla quotidianità di andare avanti senza intoppi.

Ed è da qui che dobbiamo partire. Il pizzaiolo egiziano, il barista rumeno, la commessa pakistana, il responsabile marketing ghanese, il giornalista siriano, l'autista turco, il direttore palestinese non ci fanno paura perché li conosciamo, li incontriamo ogni giorno, i loro figli vanno a scuola con i nostri, le loro tradizioni si incontrano con le nostre e tutto, durante la routine giornaliera, ci sembra normale, perché è normale.

Chiudiamo le frontiere
Ma se così fosse il tuo collega non lavorerebbe con te
Cosa c'entra, lui è diverso”.

E ti sei mai chiesto perché lo consideri tale?

Forse perché quando era piccolo nessuno lo ha mai escluso a causa della sua religione o delle sue origini e lui è riuscito a crescere con un'attitudine positiva verso la società che ha accolto i suoi genitori.

Forse perché quando lo hai conosciuto non ti importava sapere se fosse musulmano o cattolico, ma semmai per quale squadra tifasse o in che zona della tua città abitasse.

Forse, semplicemente, perché non avevi paura di lui e hai permesso a te stesso di conoscerlo e così hai scoperto che lui non era un terrorista, ma solo un tuo amico.

[Foto copertina di cherylholt]

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