L'assessore alla Cultura della Regione Abruzzo, Luigi De Fanis, del Pdl, pretendeva una volta alla settimana prestazioni sessuali dalla sua segretaria, Lucia Zigarello, di 32 anni. La parte più saliente della notizia è la contrattualizzazione nero su bianco, con tanto di firma della controparte: la donna doveva fare sesso una volta a settimana. Il contratto strappato in mille pezzi al momento delle perquisizioni è poi stato ricomposto pazientemente e il suo contenuto è stato confermato dalla stessa avvenente collaboratrice di De Fanis, interrogata dal pm Giuseppe Bellelli. La signora era a sua volta finita ai domiciliari come complice nei reati di concussione, truffa aggravata e peculato per i quali l'ex assessore De Fanis è agli arresti domiciliari.
La concessione del corpo della segretaria a uso privato dell'assessore avveniva dietro il corrispettivo di trentaseimila euro annui pagati dalla Regione Abruzzo. Si trattava in realtà di un contratto di schiavitù – pertanto viziato nel contenuto e nella forma – che veniva regolarmente onorato dall'impiegata, dietro corrispettivo di denaro pubblico. Un'operazione soridida condotta all'interno di un'altra egualmente sordida.
Al di là della riprovazione morale e del disgusto che può suscitare, questo “contratto” deve però andare a far parte di un ben più grande capitolo contenuto in un ipotetico dizionario del “danno economico e sociale”. E' la prova pratica di un tentativo di legittimare, anche se in un contesto già criminale, un pesante fardello nella cultura del lavoro femminile: il ricatto sessuale per accedere ai posti di lavoro. Il ricatto sessuale, in questo caso, era talmente normale per la mente bacata dell'assessore – per massimo scherno, assessore alla Cultura – che doveva esserci una qualche norma che ispirasse un simile contratto. Al punto che ha ritenuto di redigere su carta le condizioni e i termini della vendita del corpo, ritenuta evidentemente una prestazione di servizi.
Ma il punto è anche un altro. Questo processo di decomposizione del tessuto sociale è facilitato dal fatto che i luoghi di potere sono da sempre occupati da uomini. Sono loro che, nella maggior parte dei casi, aprono le porte del lavoro. Così – dall'altra parte – si è alimentata un'attitudine femminile fin troppo nota: concedersi sessualmente può essere una chance da aggiungere al proprio curriculum, o in assenza di curriculum, può essere la sola chance. Eravamo abituati: le cariche pubbliche assegnate da Berlusconi come compenso per prestazioni sessuali (come abbiamo appreso in diverse testimonianze) sono state profumatamente pagate dalla collettività. Non solo. Spesso si è trattato di persone totalmente incompetenti che per onorare l'incarico pubblico dovevano essere affiancate da uno staff di supporto. Sempre pagato dalla collettività.
All'epoca, le reazioni di sdegno sono sempre state rubricate come: “invidia”, “moraliste”, “prodotto della persecuzione giudiziaria”, “frutto delle femministe eterodirette da uomini, o delle “vetero femministe”. A destra. Con riprovazione morale, a sinistra, concentrata sul dare tutta la colpa a Berlusconi, senza mai centrare veramente il punto sul dato del lavoro, e sul tipo di cultura sottesa alle azioni di Berlusconi, su quanto importante sia invece per l'economia e per le famiglie italiane se le donne lavorassero di più e meglio. Le domande da fare sempre allora sono: in che modo le donne accedono ai posti di lavoro? In che misura si sentono ricattate? Perché cedono ai ricatti? Questa sottocultura primordiale, sulla quale però l'universo maschile per primo dovrebbe imparare a ragionare, ha il pregio di essere particolarmente masochista: quanti uomini hanno avuto delle carriere stroncate da un'ultima arrivata, protetta e “amata” dal capo? Così, in un circuito senza fine.
E' inutile dire quanto grave sia il danno per le donne perché rende ancora più demotivante la ricerca di lavoro in un contesto già gravemente compromesso: perché le mie competenze non bastano mai? E se questa cultura non fa che ingrossare il sentimento di sfiducia e di disistima femminile rispetto alle proprie capacità professionali, dall'altra parte, rivela una miseria sessuale maschile, tragica. L'assessore che tutto faceva meno che occuparsi della carica per la quale era pagato (alberghi, viaggi e champagne sul conto della Regione) aveva bisogno della certezza che il suo oggetto del desiderio fosse sempre a disposizione. E una dichiarazione della propria inettitudine sessuale, del disprezzo nelle sue capacità di seduzione, al punto di decidere di pagarle, ma con i soldi pubblici, in un delirio narcisistico e infantile, in cui probabilmente da qualche parte si deve anche essere sentito gratificato. Davvero ci vorrebbe una nuova versione dei “Comizi d'amore” di Pier Paolo Pasolini.