Giovanna Botteri, il body shaming e quella strada da percorrere che è ancora tutta in salita
Ceo, imprenditrice, avvocato, medico, insegnante, ministro, ingegnere, astronauta. Le nostre mamme e le nostre nonne prima di noi ci hanno insegnato che saremmo potute diventare chi volevamo. E noi ci abbiamo creduto, con una strada tutta in discesa da percorrere, spianata da chi ci ha preceduto. Le nostre battaglie sono altre. Siamo la generazione che ha detto basta agli stereotipi, che combatte per difendere imperfezioni, smagliature, curve accentuate o nessuna curva, capelli rosa o verdi, lunghi o a spazzola, corpi tatuati o cicatrici esibite con fierezza.
Fingiamo di avercela fatta
La verità, però, è che fingiamo di avercela fatta. Fingiamo che, solo per aver avuto la fortuna di nascere dopo, tutto sia giusto, onesto, rispettoso. Fingiamo di poter parlare di qualsiasi cosa e pretendiamo che gli altri ci ascoltino e non guardino soltanto se quel giorno indossiamo una camicia abbottonata fino al collo o una maglietta scollo a V. Fingiamo di stare bene quando camminiamo per strada e un clacson suona per attirare la nostra attenzione. O quando sentiamo l'esigenza di dover porre dei limiti e delle distanze. Fingiamo di stare bene persino quando al colloquio di lavoro, dopo aver parlato dei nostri sogni e delle nostre ambizioni, dopo aver commentato le due lauree, il master e i corsi di perfezionamento conquistati con orgoglio e sacrificio, dobbiamo rispondere alla domanda «è impegnata al momento? Pensa di volere dei figli nel breve periodo?». Perché poi laddove affiggiamo foto, ricordi e premi vinti, ma anche sacrifici, porte in faccia, errori e insegnamenti, proprio sul quel muro della nostra vita si forma una crepa, così piccola da essere impercettibile. E poi se ne forma un'altra e un'altra ancora, fino a quando quella linea diventa visibile anche a occhio nudo. E inizia a cadere una fotografia, poi una certezza e poi una speranza. E così via.
Il body shaming e la vicenda di Giovanna Botteri
I commenti rivolti a Giovanna Botteri, giornalista apprezzata e stimata della Rai, corrispondente da Pechino, pluripremiata e con una carriera eccezionale alle spalle, sono una crepa, una di quelle grandi, capaci persino di deformarlo quel muro. Da anni la Botteri è oggetto di scherno, di insulti e di body shaming, che nulla hanno a che vedere con la sua professione. Niente di nuovo, purtroppo. Qualche giorno fa, però, la questione è approdata al tavolo di Striscia la Notizia che ne ha voluto realizzare un servizio, il quale, nello loro intenzioni, andava a favore della giornalista Rai, poiché si faceva notare che, nonostante la corrispondente indossasse la stessa maglia a ogni collegamento, avesse optato per una messa in piega differente. Il tutto condito dalle tipiche animazioni del tg satirico e con in sottofondo Giorgio Gaber che canta «quasi quasi mi faccio uno shampoo». Al rientro in studio Gerry Scotti ha poi commentato «Brava, brava Giovanna, vai avanti così nel tuo importante lavoro e non badare a chi sta a guardare il capello», a testimonianza dell'ironia e delle buone intenzioni del programma. Il problema, però, è che spesso persino l'ironia può andare a scalfire quella famosa crepa.
La lettera manifesto di Giovanna Botteri
A quel punto ha deciso di parlare la stessa Giovanna Botteri, con una vera e propria lettera manifesto: «Ho 40 maglie tutte uguali, blu o nere, con lo scollo a V. Lavoro come una dannata tutto il giorno, corro, non ho tempo di pensare all’abito. Tranquilli perché le cambio ogni giorno e le lavo. I capelli? Si capisce che non sono freschi di messa in piega, ma mi pare di essere una donna normale. Faccio giornalismo, non spettacolo. Sono quasi un’asociale, per niente mondana e queste “attenzioni” mi imbarazzano. Quando mi dicono che passo su “Striscia la notizia ” non ci dormo la notte. Sono io che devo raccontare, non diventare l’oggetto del racconto». A scuola di giornalismo ci hanno insegnato come trovare una notizia, come renderla comprensibile, come essere chiari e sempre obiettivi. Come inseguire la verità e non accontentarci di ciò che ci venga raccontato. Non ci hanno insegnato a essere la notizia. «Qui a Pechino sono sintonizzata sulla Bbc, considerata una delle migliori e più affidabili televisioni del mondo – si legge ancora nella sua lettera – Le sue giornaliste sono giovani e vecchie, bianche, marroni, gialle e nere. Belle e brutte, magre o ciccione. Con le rughe, culi, nasi orecchie grossi. Ce n’è una che fa le previsioni senza una parte del braccio. E nessuno fiata, nessuno dice niente, a casa ascoltano semplicemente quello che dicono. Perché è l’unica cosa che conta, importa, e ci si aspetta da una giornalista. A me piacerebbe che noi tutte spingessimo verso un obiettivo, minimo, come questo. Per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere e far discutere su cose importanti per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne».
La replica di Michelle Hunziker e la solidarietà dal mondo del giornalismo
Anche Michelle Hunziker, conduttrice di Striscia la Notizia, è intervenuta sulla vicenda. «Ho visto che si è alzato un polverone incredibile di una fake news totale. Dicono che noi abbiamo offeso pesantemente una giornalista che si chiama Giovanna Botteri, cosa assolutamente non vera. Perché noi con Striscia abbiamo mandato in onda un servizio a favore di questa giornalista, dicendo che tanti media e molti social l’hanno presa in giro per il suo look e invece noi prendiamo atto del fatto che si è fatta un’ottima e una bellissima messa in piega. Questo non è attaccare una persona, è rimanere nei toni di Striscia come sempre e soprattutto non è body shaming. Va bene? Cerchiamo di andarle a vedere le cose prima di accusare». Sabato 2 maggio hanno espresso solidarietà alla corrispondente Rai da Pechino le commissioni Pari opportunità di Fnsi, Usigrai e Cnog e l'associazione Giulia Giornaliste, attraverso una nota congiunta. «In inglese si chiama bodyshaming, ma la potenza negativa di questa pratica si esprime bene anche usando l'italiano. Derisione, fino ad arrivare a vere e proprie offese, per come si appare, per come è il corpo, per come ci si veste. Nemmeno a dirlo, è una pratica ormai diffusissima nei social network. Colpite sono soprattutto le donne, che sono il gruppo sociale più odiato in rete. Una forma di attacco subdolo perché attraverso la risata che vorrebbe suscitare, ridicolizza, ferisce».
«There is a crack in everything»
Che lo si chiami body shaming, insulto, offesa, maschilismo, sessismo, ignoranza, resta una crepa in quel muro. Si può scegliere di coprirla con un poster o un'altra foto ancora, oppure si decide di tenerla lì, ben visibile, insieme agli altri traguardi raggiunti, come se fosse un monito. «There is a crack in everything. That's how the light gets in, c'è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce», cantava Leonard Cohen. Perché non è vero che ce l'abbiamo fatta, o meglio non ancora. E la strada che pensavamo fosse in discesa, in realtà a un certo punto risale e poi ricurva. Ma è vero quello che ci dicevano da bambine le nostre mamme e le nostre nonne. Possiamo essere chi vogliamo.