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Esiste una moda sostenibile? No. Per aiutare l’ambiente bisogna comprare meno (e meglio)

Oggi è la Giornata mondiale della Terra, l’occasione per riflettere sull’impatto che le nostre scelte hanno sul pianeta. Anche la moda inquina: delle materie prime alla produzione, fino al trasporto e allo smaltimento, ogni passaggio della catena ha un costo ambientale. Il cuore del problema però è a monte: siamo abituati a considerare i vestiti come “usa e getta”
A cura di Beatrice Manca
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Abbiamo sostituito le bottigliette d'acqua da mezzo litro con la borraccia, abbiamo riscoperto la bicicletta anche in città e non andiamo più a fare spesa senza una shopper in tela. Ma di tutti i piccoli e grandi cambiamenti che abbiamo adottato per aiutare il pianeta, ce n'è uno che risulta particolarmente difficile: limitare l'impatto ambientale dei nostri vestiti. Anche l'abbigliamento inquina: la moda infatti è un'industria globalizzata, che sposta merci e prodotti da un capo all'altro del globo. Per produrre i capi servono grandi quantità di acqua e sostanze chimiche, spesso molto inquinanti. Quando si parla di "fast fashion" ci si riferisce a prodotti non solo prodotti velocemente, ma anche consumati molto rapidamente e gettati via. Siamo nell'epoca della moda usa e getta: compriamo per pochi euro, indossiamo poche volte e e il materiale è scadente pazienza, si può sostituire facilmente. Ma se non compriamo più piatti e posate monouso, perché continuiamo a comprare vestiti con un ciclo di vita così breve?

Quanto inquina la moda?

Da qualche anno la sostenibilità ambientale è un tema molto presente e sentito, specialmente dai più giovani. I brand si sono adattati, rinunciando all'uso della pelliccia nelle proprie collezioni e introducendo collezioni in fibre naturali o recuperate. Che siano tecniche di marketing ben congegnate o un cambiamento di valori, il risultato comunque è che i brand hanno iniziato a porsi il problema della sostenibilità, del riciclo e del rispetto dell'ambiente. Inutile girarci intorno: anche la moda inquina. Dall'estrazione delle materie prime alla produzione, fino al trasporto, al consumo e allo smaltimento, ogni passaggio della catena ha un impatto sull'ambiente. La fast fashion poi ha fatto deflagrare i consumi, rendendo disponibili grandi quantità di vestiti a prezzi stracciati. Una volta i vestiti costavano, perciò venivano usati e riparati finché possibile e poi donati. Oggi i prezzi bassissimi permettono di gettarli nella spazzatura senza troppi scrupoli. L'impatto della moda sull'ambiente quindi è innegabile, ma difficile da quantificare: l'ambiguità dei dati disponibili è stata messa in luce dalla giornalista Alden Wicker, esperta di moda sostenibile e firma di testate come Vogue Business, Vox e The Cut: in un suo articolo dimostra che molti dei dati che citiamo derivano da informazioni estrapolate dal loro contesto o mai confermate dalle fonti a cui vengono attribuite. Alcuni report pubblicati dall'Agenzia Europea per l'Ambiente però permettono di farci un'idea dell'impatto che la moda ha sull'inquinamento dell'acqua potabile e sulla produzione di rifiuti.

Una t-shirt richiede 2700 litri di acqua

Uno dei grandi problemi dell'industria tessile è l'enorme consumo d'acqua che richiede per la coltivazione delle materie prime (principalmente il cotone) e i processi di lavorazione e tintura dei capi. Il Parlamento Europeo ha pubblicato un'infografica in cui stima che nel 2015 l'industria tessile e dell'abbigliamento ha utilizzato globalmente 79 miliardi di metri cubi di acqua. Per avere un termine di confronto, nel 2017 il fabbisogno dell'intera economia dell'Unione Europea ammontava a 266 miliardi di metri cubi. Per fabbricare una semplice maglietta di cotone occorrono 2.700 litri di acqua dolce: praticamente quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo di vita. Un paio di jeans, invece, richiede almeno 10mila litri di acqua. Nel libro "Fashionopolis: the price of fast fashion and the future of clothes" la giornalista di moda Dana Thomas sostiene un kilo di cotone richiede inoltre circa 10mila litri di acqua, cifra che raddoppia nel processo di confezione del capo finito. Se la produzione di abbigliamento rimane costante, stima l'autrice, la richiesta di acqua supererà la disponibilità mondiale del 40% entro il 2030.

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Le microplastiche dei vestiti finiscono in mare

I processi di produzione tessile fanno uso di una grande quantità di sostanze chimiche, circa 3.500. Di questi, 750 sono stati classificati come pericolosi per la salute umana e 440 come pericolosi per l'ambiente. Coloranti, agenti fissanti, ma anche pesticidi e insetticidi usati nelle coltivazioni di cotone. L'infografica del Parlamento Europeo (aggiornata il 16 febbraio 2021) sottolinea che circa il 20% dell'inquinamento globale dell'acqua potabile dipende dai vari processi a cui sono sottoposti i capi per ottenere alcuni particolari effetti e colori. Non sono solo le aziende ad inquinare l'acqua, ma anche le lavatrici che vengono fatte quotidianamente: i capi sintetici rilasciano ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari, ossia il 35% del totale. Ridurre il rilascio di microplastiche è possibile: innanzitutto, controllando bene le etichette ed evitando per quanto possibile capi sintetici, pile e poliestere. Un'altra buona pratica è quella di avviare le lavatrici a pieno carico e preferibilmente a basse temperature.

La produzione dei tessuti generano gas serra

Le pressioni ambientali del settore tessile – che include l'abbigliamento sì, ma anche l'arredamento e  i tessuti per le auto – si verificano in ogni fase: dalla produzione alla distribuzione su scala globale, fino alla gestione dei rifiuti. Secondo un rapporto del 2019 stilato dallo European Enviroment Agency, la produzione di tessuti genera circa 15-35 tonnellate di CO2 equivalente per tonnellata di prodotto. Questo posiziona il tessile al quinto posto tra le categorie a più alto tasso di emissioni, subito dopo trasporti e settore alimentare.

Meno dell'1% degli indumenti viene riciclato

Rispetto a cinquant'anni fa sono disponibili molti più vestiti a un prezzo decisamente più basso: i dati europei ci dicono che dal 1996 a oggi la quantità di indumenti acquistati nell'Ue per persona è aumentata del 40%. Secondo i dati pubblicati sul portale del Parlamento Europeo, nel mondo meno dell'1% degli indumenti viene riciclato come vestiario, in parte a causa di tecnologie inadeguate. Ogni anno i cittadini dei vari Stati europei consumano quasi 26 kg di prodotti tessili e ne smaltiscono appena 11 kg. Gli indumenti usati per lo più vengono inceneriti o finiscono in discarica (87%). Non solo sono cambiate le nostre abitudini di consumo, ma anche i materiali che compongono il nostro guardaroba: se nel 1960 le fibre sintetiche erano quasi marginali, oggi costituiscono il 60% del nostro abbigliamento e del tessile che ci circonda. Il poliestere, la fibra sintetica più diffusa, richiede circa 70 milioni di barili di petrolio ogni anno. Una vera e propria bomba ambientale, soprattutto se finisce disperso nell'ambiente.

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La soluzione? Comprare meno, ma meglio

Ma allora, se il poliestere inquina e il cotone usa troppa acqua, come dobbiamo vestirci? La risposta non è scontata: non esiste un materiale magico che non causi alcun danno al pianeta. Questo vale per la moda e per ogni altra categoria di consumo. Quello che deve cambiare sono le nostre abitudini di acquisto: comprare meno e buttare meno, riparando i capi, trattandoli con cura e cercando tutte le possibili alternative alla discarica. Il sistema della fast fashion ci ha abituato a considerare i capi quasi usa e getta: costano talmente poco che siamo portati a comprarne più del necessario. Anche i materiali scadenti non sono un problema, perché se le cose non durano possono essere rapidamente sostituite. Quante volte abbiamo comprato qualcosa pensando: "Ci faccio la stagione e poi lo butto?". Lo scopo del gioco quindi è allungare la vita di ciò che abbiamo già e di scegliere meglio cosa comprare in futuro. Un maglione di lana costa di più rispetto a uno in fibre miste e sintetiche, è vero, ma con le cure giuste la spesa sarà un investimento nel tempo. Dal punto di vista ambientale, meglio comprare un solo capo "che duri" negli anni piuttosto che tre o quattro capi scadenti, destinati alla discarica nel giro di pochi anni. In commercio esistono molte linee green con materiali riciclati o fibre naturali: alternative da valutare, certo, quando dobbiamo acquistare un nuovo paio di sneakers o di jeans. Ma prima di andare a fare shopping fermiamoci un attimo e pensiamo: mi serve davvero?

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