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Chi è il mental coach e perché per gli atleti delle Olimpiadi è necessario

Mai come quest’anno abbiamo sentito pronunciare tanto spesso l’espressione “mental coach”. Sempre più sportivi si affidano agli “allenatori della mente”. Ma cosa fanno? Quale è il loro ruolo? Ne abbiamo parlato con Stefano Massari, mental coach di Matteo Berrettini, il primo tennista italiano a giocare la finale di Wimbledon.
Intervista a Dott. Stefano Massari
Mental Coach
A cura di Francesca Parlato
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Forse mai prima d'ora era stata data tanta rilevanza alla salute mentale degli atleti. Si è parlato dei demoni di Simone Biles, la ginnasta della squadra statunitense, della depressione di Naomi Osaka, giovanissima tennista al secondo posto nel ranking mondiale, dei mental coach di Matteo Berrettini e di Marcell Jacobs che hanno fatto la storia dello sport italiano, il primo disputando per la prima volta la finale del torneo di Wimbledon, il secondo vincendo contro qualsiasi pronostico, i cento metri a Tokyo. Mens sana in corpore sano d'altronde lo diceva già il poeta romano Giovenale nelle sue Satire. Ma se fino a qualche anno fa il life coach era una figura da serie tv e star americane, oggi è sempre più comune, soprattutto tra gli sportivi. "Il mental coach è a tutti gli effetti un allenatore che si occupa della parte mentale della prestazione per la gestione dei ragionamenti, delle emozioni e delle paure. – spiega Stefano Massari, mental coach, specializzato nel seguire atleti e campioni dello sport, e trainer di Matteo Berrettini Io lavoro molto sulle qualità delle persone, faccio in modo che possano far leva sulle loro caratteristiche positive nei momenti di bisogno come durante una gara o un momento di particolare stress". 

Breve storia del mental coaching

Il mental coaching nasce negli Stati Uniti tra gli anni '60 e i '70. Il primo a mettere nero su bianco alcuni principi di questa disciplina fu Timothy Gallwey, allenatore della squadra di tennis dell’Università di Harvard, che nel suo libro "Il gioco interiore" parla proprio della differenza tra il gioco esteriore, quello che tutti vedono, e quello interiore, che si disputa nel proprio "stadio" mentale. E stila anche una sorta di equazione del successo dove: performance = potenziale – interferenza. E l'interferenza è ciò che bisogna tenere a bada, ridurre il più possibile per aumentare il valore della propria performance. Tra i mental coaching più noti ricordiamo l'ex pilota automobilistico JohnWhitmore e Tony Robbins, coach di Donald Trump e Bill Clinton. Bisogna stare attenti a non confondere il coach con lo psicologo: anche se apparentemente potrebbero sembrare due professioni con delle fortissime analogie, i ruoli sono completamente diversi. Tanto per cominciare chi si rivolge a un coach non è un paziente, ma un cliente, e soprattutto il coach non lavora su problematiche o disagi, non instaura una relazione asimmetrica con il cliente, ma lo accompagna verso il raggiungimento di un obiettivo specifico (in Italia rientra tra le “Professioni non organizzate in ordini e collegi” ai sensi della L. 4/2013). Nel corso degli anni il coaching si è sviluppato su fronti diversi: il life coaching che mira al raggiungimento di obiettivi personale e al miglioramento della qualità della propria vita, il business coaching per chi vuole ottimizzare i risultati lavorativi, il parent coaching che si occupa del rapporto genitori figli. E poi ovviamente c'è il mental coaching: diretto agli sportivi che vogliono migliorare le proprie performance. "Negli Stati Uniti – spiega Massari – Si è capito molto prima che in Europa e in Italia, l'importanza di questo lavoro per gli atleti. Credo che oggi il mental coach stia attraversando lo stesso percorso del preparatore atletico che nel corso degli anni è diventata una figura indispensabile accanto all'allenatore".

Fare leva sulle proprie qualità

D'altra parte la mente presiede tutte le funzioni del corpo. "Lo dicevano già nell'antica Roma, ma a volte ci si dimentica di quelle che erano conoscenze acquisite e note già duemila anni fa – continua Massari – È importante lavorare sulle proprie risorse interne e sulle proprie qualità. Tutti noi siamo estremamente concentrati sui nostri difetti, sulle nostre mancanze. Mentre è importante puntare su quanto di buono abbiamo". Il mental coach fornisce gli strumenti per un cambio di prospettiva. "Lavorare su quello in cui riusciamo meglio, su quello che amiamo, concentrarci sulle qualità che possiamo mettere in campo è già di per sé un atto rivoluzionario".

I demoni dello sport

Le due atlete Osaka e Biles hanno scoperchiato un vaso di Pandora. Con un coraggio e una forza che mai avevamo visto prima, due giovanissime donne non hanno avuto paura di raccontare la loro vulnerabilità. "Nello sport esiste un approccio del risultato a tutti i costi che può determinare questo tipo di reazione – spiega Massari – Il risultato a tutti i costi penalizza sia chi lo raggiunge sia chi non ci riesce. Nel secondo caso perché l'atleta si sentirà frustrato e depresso per la sconfitta. Nel primo caso perché, una volta raggiunto l'obiettivo, non saprà più per che cosa vivere. I casi di Osaka e Biles ci fanno capire quali sono i rischi di arrivare così giovani sotto i riflettori a partecipare a eventi così importanti: si sono sentite schiacciate dallo stress, hanno sentito tutto il peso sulle loro spalle. Il rischio, se non si è preparati a gestire questo carico emotivo, è proprio franare". L'approccio giusto secondo il mental coach Massari è diversificare. "Oltre a lavorare sulle proprie risorse interne è sempre bene sapere di avere altro oltre lo sport o il lavoro. Negli anni '80 si pensava che un campione non dovesse far altro che occuparsi del suo sport. Ma gli esseri umani sono creature complesse, che devono avere interessi diversi: dalle relazioni con gli altri, alle serie tv, passando per il teatro, la musica. Se l'atleta sa di avere altro sa che la sua vita non finisce dopo lo sport, e la pressione si riduce".

Il mental coach nella vita quotidiana

Chi decide di intraprendere un percorso con un mental coach deve sapere che non sarà tutto in discesa. "Bisogna lavorare, esattamente come si fa in palestra. Il mental coach è un allenatore, non un mago con una bacchetta". Gli incontri all'inizio si svolgono ogni dieci giorni. "Ma ogni percorso è a sé. Si comincia ogni dieci giorni, poi si intensifica, magari una volta a settimana, poi si possono diradare. Nel caso degli atleti di solito durante i tornei più importanti li sento anche una volta al giorno. Ma in generale tutto dipende anche dall'evoluzione del cliente". Per raggiungere i propri obiettivi, per migliorare le proprie performance bisogna faticare. "Ci sono degli esercizi da fare come scrivere i propri obiettivi, quali sono le difficoltà che si prevedono, come affrontarle. Il mental coaching è un allenamento e se non è faticoso non possiamo definirlo tale". Chi si rivolge a un life coach è sempre in cerca di un cambiamento. "Non si tratta però di persone in difficoltà, ma di persone che sono in cerca di un miglioramento, personale, familiare, lavorativo e che si fanno delle domande su di sé. Non c'è necessariamente un profilo disfunzionale, semplicemente si è in cerca di una maggiore soddisfazione". E che soddisfazione deve essere stata quella di vedere Matteo Berrettini giocare la finale a Wimbledon contro Djokovic: "È stato bello vedere come ci è arrivato a quella finale. Con fiducia, serenità, con tutte le capacità per gestire una situazione così complicata, senza farsi travolgere. Al di là del risultato è come si arriva sul campo a fare la differenza".

Le informazioni fornite su www.fanpage.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.
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