Lottare per i diritti delle donne in Arabia Saudita è un’impresa che consuma, nel vero senso del termine. Chi credeva nella svolta secolarista e di emancipazione del Paese con Re Salman è stato costretto ad ammettere che ha preso un abbaglio. Nel 2017 tanti, in Occidente, hanno esultato per la vittoria che le donne saudite avevano incassato: l’opportunità, per la prima volta nella storia, di poter guidare la macchina. Grazie alla mobilitazione del collettivo Women To Drive il sovrano aveva concesso loro di mettersi al volante. E poco dopo, nel 2019, ancora una volta le donne hanno ottenuto di poter entrare negli stadi e assistere alle competizioni sportive.
In Arabia Saudita ogni donna ha un suo tutore legale
C’è un “però”, in queste notizie, che mette a fuoco il motivo per cui l’Arabia Saudita continua a mantenersi sempre negli ultimi posti delle classifiche internazionali sul Gender Gap (è al 141esimo posto su 144 Paesi). Ogni donna, nello svolgere qualunque attività quotidiana, anche guidare o andare allo stadio, ha l’obbligo di essere supervisionata (sempre, senza eccezioni), da un wali al-amr, ovvero un tutore legale. Inizialmente questo ruolo viene attribuito al padre mentre, in un secondo momento, questo compito passa al marito. Nel caso in cui una donna passi dalla condizione coniugale a quella di vedovanza, il ruolo di guardiano viene trasferito al familiare di sesso maschile a lei più prossimo, come ad esempio il padre, il fratello o il figlio.
Loujain al-Hathloul, in carcere per la libertà
Contro tutto questo, questa sudditanza che mai renderà libere le donne saudite, si era levata la voce di Loujain al-Hathloul, una militante per i diritti umani di 31 anni che che è stata condannata oggi, dalla corte di Riad, a 5 anni e 8 mesi di carcere. Arrestata nel 2018, è stata torturata dal regime nei modi più abietti: violenza sessuale, elettroshock, frustate. Un orrore che Loujain ha tentato di denunciare e portare alla luce dell’opinione pubblica attraverso uno sciopero della fame, iniziato lo scorso ottobre. Per chi, come noi, ha uno sguardo “occidentalizzato” sulla vicenda, le accuse che le sono state rivolte assumono dei contorni assurdi. I motivi che hanno portato Loujain al-Hathloul a rischiare la vita dietro le sbarre sono l’aver criticato la figura del wali, il tutore delle donne e di aver contattato diplomatici stranieri per sensibilizzare il mondo sulle condizioni delle donne Saudite. Loujain al-Hathloul rischia la vita in carcere, ogni giorno potrebbe esserle fatale. Il Comitato Onu sull’eliminazione delle discriminazioni contro le donne ha lanciato un richiamo sulle condizioni dell’attivista, perché venga posta l’attenzione sulle condizioni di salute di Loujain. Sappiamo che non è abbastanza e non lo sarà finché la comunità internazionale non metta all’angolo l’Arabia Saudita, un Paese dove le donne non esistono come esseri umani. In un Paese in cui vige la Sharia e ogni moglie o figlia è proprietà del padre o marito, ci saranno ancora migliaia di attiviste come Loujain al-Hathloul che denunceranno e che rischieranno la pelle ogni volta che alzeranno la voce. Non possiamo più lasciarle sole.